Adolescenti, status symbol e analfabetismo emotivo – Periscopionline.it


Grazie ai fondi PNRR, prima di Natale la mia scuola ha sostituito alcuni banchi della sede centrale. Quelli dismessi sono finiti alla sezione carceraria. Alcuni erano addirittura in buono stato. Noi docenti eravamo contenti. Dopo poche settimane, in un’aula, abbiamo trovato tutti i piani in formica decorati da mano anonima. Ripetuta più volte, campeggiava la scritta: Prada / Milano, Gucci / Firenze.

Ho detto agli allievi che potevano sentirsi privilegiati: la scuola forniva addirittura banchi griffati! Hanno riso ma, come me, erano dispiaciuti per il danno. Ho pensato fosse inutile cercare l’artista; quello spazio è usato anche da altri enti di formazione. Però, osservando quei loghi riprodotti con la biro, mi è tornato alla mente un episodioquando insegnavo in una scuola professionale portammo una classe in gita a Milano. Dopo un itinerario culturale in centro, durante il quale avevamo proposto alcuni luoghi da visitare, lasciammo tempo libero ai ragazzi. Speranzosi, li guardammo allontanarsi: si fiondarono nei negozi di moda. Due ore. Calamitati. Fuori avrebbe potuto esserci lo sbarco dei marziani, credo non se ne sarebbero accorti. Un allievo, che quell’anno aveva chiesto alla scuola i manuali in prestito d’uso per motivi economici, tornò esibendo fieramente una cintura firmata del valore di 145 euro! Mi colpì. Mi indispettì.

Le scienze sociali leggono nella brama di status symbol la spia di un bisogno. In riferimento agli anni Settanta, descrivendo le seconde generazioni di immigrati meridionali nelle città del nord, l’antropologo Dario Basile scrive: «I giovani immigrati davano grande importanza al proprio modo di vestirsi, con una ricerca dell’abito firmato, la pettinatura alla moda, il tutto caratterizzato da uno stile forse eccessivo che li rendeva riconoscibili, ma che era un altro modo per reclamare uno spazio in una società che tendeva ad emarginarli. Quei ragazzi desideravano probabilmente togliersi di dosso l’abito del ghetto».

Il possesso di capi griffati era (è) dunque una scorciatoia per sentirsi inclusi nella parte ricca della società, l’occasione accessibile di realizzare la propria ambizione. Illusione. Cara, effimera, soprattutto smentita dai fatti: le persone più povere sono ancora le più escluse dall’ascensore sociale, il carcere lo testimonia con indiscutibile chiarezza.

La scommessa pedagogica che quotidianamente la scuola deve raccogliere è cercare di rendere attraente la formazione, l’unico fulcro su cui appoggia davvero la leva del cambiamento. Senza prescrizioni. Senza paternalismi. Senza giudizi. Non è facile, non solo per l’utenza, ma perché parte degli insegnanti è già convinta del proprio valore e, complici i salari bassi, tende a mettersi poco in discussione.

La risposta deve comunque essere di sistema e non solo qualitativa (più aggiornamento), ma quantitativa: ci vanno più ore di scuola. Non sono d’accordo con chi pensa ai fondi del PNRR: la strada non è attendere o sfruttare indiscriminatamente congiunture economiche particolari, producendo un mare di progetti estemporanei, costringendo tutti ad affannarsi per un lasso di tempo ridotto e poi, finita la festa, di nuovo il (quasi) nulla. La risposta deve essere strutturale: più ore di scuola su tutti i livelli, più fondi regolari.

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Certo, belle parole. Sappiamo tutti che la coperta è corta. Però in questo caso si tratta di una scelta che una politica sociale lungimirante deve avere il coraggio di fare, perché è lei che stabilisce le priorità. D’altronde la foto del Paese mostra che ancora troppi adolescenti, privi di un contesto che li guidi e stimoli, trascorrono isolati interi pomeriggi davanti ai social o alla tv. Spesso davanti a entrambi, contemporaneamente, e mediamente scelgono programmi infimi. Parlo dell’utenza che ho conosciuto nelle scuole professionali, tecniche e in carcere (ove, in assenza di cellulari, la televisione è il bene più richiesto!), parlo di quell’utenza che spesso compare nei report sull’abbandono scolastico. Ebbene, capita che il giorno dopo a scuola i ragazzi raccontino quello che hanno visto o tendano direttamente a scimmiottare nelle relazioni interpersonali i meccanismi appresi dalla tv e gli insegnanti devono affrettarsi a rimediare ai danni con spiegazioni e proposte alternative.

Da anni, da certi studi televisivi, si irradiano nel Paese programmi che simulano riunioni di ragazzi che dialogano (male) guidati (male) da figure adulte che invece di essere riconosciute per quello che sono assurgono a modello, a mito, solo in virtù della loro esposizione pubblica. La popolarità è più importante della competenza, e così si diffonde un modello di scarso rispetto dei turni di parola, toni che si alzano improvvisamente, sceneggiate inverosimili e pubblica prostituzione dei sentimenti. A portata di divano, di solitudine. Un obbrobrio programmatico, che in qualche caso diviene la lenta sopraffazione degli indifesi che, dalla prima adolescenza, assorbono quel contenuto senza sufficienti strumenti per filtrarlo.

Così, generazioni di adolescenti rischiano di essere abbandonate di fronte a questi modelli, senza una sufficiente contro offerta di strumenti critici, senza chi li educhi, li solleciti, pretenda il loro impegno. Molti crescono come analfabeti emotivi, masticando senza accorgersene pregiudizi e ignoranza e il fatto che idolatrino i marchi della moda e della ricchezza diviene un corollario quasi irrilevante della loro subalternità attuale e futura, la vera stortura da combattere.

La scuola deve pazientemente smontare quei falsi miti, spiegarne i meccanismi e i limiti e insegnare il dialogo costruttivo. E lo fa, ogni giorno, con fatica. Ma la potenza di fuoco di queste trasmissioni, i cui estratti più volgari sono replicati sui social, è superiore: a parte il non costare fatica, l’aggancio sta nella promessa di rendere popolari gli ultimi, altra illusione menzognera. Per ogni ora di quelle trasmissioni servirebbero due settimane di scuola. Talvolta, anche per gli adulti conduttori. Noi abbiamo armi spuntate. Più ore di scuola vuole invece dire che lo Stato li protegge, li rispetta, li forma. Ma, oggi, così non è. E, soprattutto nei contesti deprivati, la lotta ricorda quella di Davide contro Golia. Così, se non c’è un contesto familiare o sociale che supporta l’adolescente, Golia vince a mani basse.

Tazio Brusasco (1981)
Laureato in antropologia, insegna Italiano e Storia nelle scuole superiori. Da tre anni presta servizio presso la sezione carceraria del proprio istituto.

Pubblicato su Volere la luna il 20.02.2025

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