Il dramma dei profughi dopo la rotta di Caporetto


Alla vigilia della XII battaglia dell’Isonzo, l’esercito austro-tedesco stava combattendo da 39 mesi. Quello italiano da 29. Le perdite di uomini e di mezzi erano già state enormi. Al comando austriaco occorreva una “forte spallata” per arrivare al Tagliamento, e varcarlo. Dal 25 ottobre al 5 novembre 1917, dopo la rotta di Caporetto, 135 mila friulani e 100 mila veneti lasciarono le terre occupate dagli austro-tedeschi. Sarebbero diventati 600 mila l’anno dopo, quando ai 235 mila dei primi giorni si aggiunsero altri sfollati dai territori della sinistra Piave. Il numero dei profughi provenienti dalla destra Tagliamento fu minore. Inizialmente, infatti, era convinzione diffusa il fiume in piena potesse rappresentare un ostacolo capace di arrestare gli austro-tedeschi.

La riluttanza a partire si fece sentire principalmente dove era prevalente l’agricoltura ricca di pianura. Nei distretti comprendenti centri urbani come Udine, con una maggiore concentrazione di industrie e servizi furono in molti ad andare. Partirono in tanti anche dal distretto di Gemona, dove l’economia era dominata da artigianato, qualche industria, servizi e agricoltura povera. E per la stessa ragione partirono da Tolmezzo. Altrove furono decisive la geografia e le infrastrutture militari, come a Osoppo, per la presenza del Forte che fu fatto saltare, e a Venzone, allo sbocco della Val Venzonassa, per il pericolo dei bombardamenti. Le destinazioni furono disparate: dal distretto di Gemona gli sfollati trovarono riparo in quasi tutte le province italiane con massime concentrazioni in quelle di Firenze, Torino e Genova. La linea di sosta si trovava a 8 chilometri da Cividale. Gli austro-tedeschi ci arrivarono il 25 ottobre. La popolazione avrebbe potuto preparare l’esodo da subito, se tempestivamente avvisata. Ma così non fu. E in quella mancanza di certezze, ogni famiglia fu costretta a decidere sulla base di voci. Toccò alle donne, in assenza dei mariti, farlo.

Fra loro c’erano Elisa, vedova con cinque figli, e la sorella Maria pure vedova. È sulle loro tracce che si dipana la storia raccontata da Gilberto Seravalli e Alba Bonelli “Dopo Caporetto Una fuga impossibile” edito da Gaspari.

Elisa era nata a Gemona il 9 novembre 1881 da Massimo Bierti e Santa Bonitti. Sposò Giuseppe Seravalli a 21 anni e gli diede sei figli Giuseppe, Santa, Maria, Anna, Massimo ed Edoardo che morì piccolissimo. La sorella maggiore di Elisa, Maria, nata l’11 ottobre 1865, a 23 anni sposò Antonio Tuti, ma rimase presto vedova, senza poter avere figli.

Per loro, come per tante donne, specie quelle giovani con figli piccoli, scappare divenne un imperativo, spinte dal terrore dell’arrivo dei “barbari” che, si temeva, avrebbero rotto, picchiato, violentato e ucciso, come avevano fatto in Belgio. E così intrapresero viaggio che comportava molti rischi.

Dopo alcuni giorni di odissea, molti dei profughi furono costretti a tornare indietro, sopraffatti dalla fatica o incapaci di attraversare il Tagliamento e trovarono la propria casa saccheggiata o bruciata. Altri riuscirono ad avanzare su percorsi sterrati o attraverso i campi perché le strade principali erano riservate ai militari. La pioggia aveva ingrossato i corsi d’acqua e i carri che trasportavano i profughi si impantanavano nel fango.

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 

Elisa era una casalinga, viveva con i figli contando sui discreti guadagni del marito, ma dopo la morte di Bepo, nel 1915, le cose cambiarono. Sua sorella Maria era impiegata comunale, sapeva che le partenze erano già cominciate a Gemona, come lo sapevano i fratelli Fantoni, prete e sindaco, prima che giungesse l’avviso ufficiale alla messa in duomo il 28 ottobre.

Elisa e Maria intrapresero il viaggio come tanti altri profughi su un carro trainato da un cavallo. Quel carro poco dopo le 18 del lunedì imboccò tra gli ultimi i 400 metri del ponte di Braulins. Subito dopo cominciò il passaggio di reparti ancora in armi finché, a mezzanotte, cinque delle diciassette arcate del ponte furono fatte saltare. Quel viaggio proseguì fino a Pistoia.

Tornarono dopo 18 mesi, trovarono la casa depredata. Il loro coraggio e la loro determinazione ha lasciato un filo che i nipoti hanno voluto riannodare e raccontare. —



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link