La magra consolazione di riuscire a far pagare un po’ di tasse a Google e alle altre big tech in Italia


Qualche giorno fa la Procura ha raggiunto un accordo transattivo con Google per chiudere l’indagine per evasione fiscale sul colosso americano. Non è il primo e non sarà l’unico caso di accordo extragiudiziale che serve a sanare un vuoto di normativa internazionale, che persiste dopo che i tentativi dell’Europa di far pagare le tasse alle Big Tech sono falliti

È di questi giorni la notizia che la procura di Milano ha archiviato l’indagine per evasione fiscale su Google a seguito della transazione da questa stilata con l’Agenzia delle entrate, ma previo versamento di 326 milioni di euro.

In tre anni le indagini della procura milanese hanno portato alle casse erariali ben due miliardi di euro a carico delle big tech (Apple, Amazon, Facebook, Netflix e altri ancora): una buona notizia, all’apparenza, per le entrate nazionali.           

Ma possibile che si debbano sempre usare le procure della Repubblica per far pagare un po’ di tasse a questi mostri sacri? Possibile che si debba sempre ricorrere a transazioni stragiudiziali (cioè accordi, di fatto, come fra privati) e non si preferisca andare in giudizio per far verificare a una corte terza chi ha ragione?

Regole vecchie

La verità, purtroppo, è arcinota e indigesta. Le big tech, perlopiù americane, sfruttano la vecchiezza dei Trattati contro le doppie imposizioni che consentono la tassazione nel paese dove si raccolgono i ricavi solo qualora si abbia lì una base fisica.

Ne consegue che se in Italia si raccolgono i ricavi ma non vi è una presenza fisica – perché tutto viene fatto online – non può esservi tassazione in Italia, ma solo nel paese in cui si trova la sede legale (in genere viene stabilita in Irlanda, dove la tassazione è bassa) della big tech in questione.

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Essendo questa verità arcinota e diffusa – la stessa situazione si trova, per dire, in Francia, Germania, Spagna e Regno Unito; ma anche in Brasile e Sudafrica – si è più volte tentato di porvi rimedio.

Tentativi falliti

In un primo tempo con il varo di una provvisoria Dst (Digital Service Tax), adottata da Italia, Francia, Regno Unito e India nell’attesa che l’Ocse assumesse una posizione mondialmente condivisa. Questa ha, in verità, elaborato (con la partecipazione attiva anche degli Stati Uniti) una macchinosa soluzione – il Pillar 1 – che però non ha mai perfezionato i suoi lavori. La situazione è tornata, così, al punto di partenza: cioè nessun accordo.

È in questo contesto che il rito milanese si compie. Nessun accordo mondiale produce spazio alle soluzioni nazionali (forzature incluse). Le forzature nascono dalla ovvietà che nel paese dove si producono i ricavi si deve trovare il modo di far pagare anche le imposte; e, dall’altro lato, dalla consapevolezza che il Trattato contro le doppie imposizioni è legge di rango superiore alla legge ordinaria.

Qualsiasi modifica della legge nazionale non inficia il disposto del Trattato. Se quest’ultimo consente di tassare l’impresa estera – che realizza ricavi in Italia – solo se ha in loco una presenza fisica, non c’è logica che tenga. Se ne esce solo lanciando ballon d’essai: la procura, da un lato, con una certa creatività, ipotizza l’esistenza di una presenza fisica riconducendola all’esistenza in loco non di persone o uffici, ma di server. Se anche uno solo di questi sta in Italia, ricorre il requisito della “presenza fisica”. Ne fa discendere il verificarsi di una evasione fiscale. Minaccia l’adozione di misure cautelari (arresto) per i dirigenti della big tech.

Quest’ultima si difende invocando le disposizioni del Trattato. Ne conosce – è evidente – il sostanziale abuso, avendo costruito la sua organizzazione proprio per poter dire di non avere una presenza fisica in loco. Ha lucrato a sufficienza per accettare qualche ingiustizia e deve evitare che i suoi dirigenti vengano arrestati o, quantomeno, costretti a non varcare il confine italiano.

I rapporti di forza

Ecco, è in questo contesto che si trova l’accordo. La big tech sa quanto ha guadagnato ed è in grado di valutare se l’importo che le viene richiesto è sufficientemente conveniente. La procura sa che la sua tesi è traballante sul piano giuridico ed è meglio evitare il maggior rigore che un organo giudicante terzo potrebbe far valere. Insomma: meglio un “concordato”, non propriamente come quello degli artigiani.

Una vicenda poco edificante ma in perfetta linea con i tempi che corrono. Le regole si scrivono per tutti ma si applicano in funzione dei rapporti di forza. Ma se questo assunto diventa patrimonio comune la conseguenza sarà l’inutilità financo della redazione di “regole”. La cui inesistenza certifica solo che vince il più forte, come avveniva per l’uomo delle caverne.

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