La procura di Milano e la Guardia di finanza, con l’Agenzia delle entrate, chiedono 12,5 milioni di euro a Elon Musk, dopo aver ipotizzato il reato di “infedele dichiarazione” che sarebbe stato commesso dai vertici del vecchio Twitter. L’indagine nasce da un controllo fiscale della Gdf, concluso ad aprile 2024, proprio sulla piattaforma americana, che oggi si chiama “X”, sulla scia delle stesse verifiche fatte su Meta. Il fascicolo è affidato dal pm Giovanni Polizzi, già protagonista di altre indagini sui colossi del web.
Se il “prodotto” è l’utente: la contestazione a Twitter e Meta
In sostanza, l’inchiesta verte su un concetto: quando un utente fornisce i propri dati – seppur gratuitamente – ai social, le piattaforme devono pagare l’Iva perché traggono guadagno dalle informazioni degli iscritti. Le iscrizioni hanno un valore economico che consentono la profilazione degli utenti. Questo “scambio”, nell’impostazione accusatoria, è soggetto a Iva. Una tesi fortemente contestata dai giganti online. E’ proprio questa l’accusa mossa a Twitter International Uk. Dal punto di vista penale sono quindi coinvolti gli ex vertici. Dal punto di vista economico – cioè di chi eventualmente paga per la contestazione – è coinvolto il magnate di origini sudafricane.
Mancato pagamento dell’Iva dal 2016 al 2022
La notizia, anticipata da Reuters, è confermata da fonti investigative. Al social network –dal punto di vista penale, in questo caso, a Twitter International Uk – viene contestato il mancato pagamento dell’Iva dal 2016 al 2022. Il nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf milanese ha chiuso la sua verifica fiscale nell’aprile 2024 e l’Agenzia delle entrate, a inizio gennaio, ha notificato le sue conclusioni alla piattaforma. Solo che la palla adesso passa a “X” del multimiliardario Musk. I suoi legali avranno tempo fino a inizio aprile per interloquire con l’Agenzia delle entrate, aderire alle richieste oppure opporsi.
Il precedente di Meta (ancora aperto): mancano 877 milioni
Lo scorso dicembre la Procura di Milano ha chiuso una inchiesta che per la prima volta affrontava il tema del peso finanziario e fiscale dei dati degli utenti sui social, con profili su Facebook e su Instagram. Per questo è stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini a Meta. L’inchiesta – tuttora aperta – ipotizza nei confronti dei due legali rappresentati della costola irlandese del colosso l’omessa dichiarazione e mancato pagamento tra il 2015 e il 2021 dell’Iva per un totale di oltre 877 milioni di euro. Una cifra rilevante che non è stata versata al Fisco, secondo la ricostruzione dei pm Giovanna Cavalleri, Giovanni Polizzi, Cristian Barilli.
Il braccio di ferro con Meta: “Fortemente in disaccordo”
“Siamo fortemente in disaccordo con l’idea che l’accesso da parte degli utenti alle piattaforme online debba essere soggetto al pagamento dell’Iva”, ha spiegato un portavoce di Meta. “Abbiamo collaborato pienamente con le autorità – ha aggiunto – rispetto ai nostri obblighi derivanti dalla legislazione europea e nazionale e continueremo a farlo. Prendiamo sul serio i nostri obblighi fiscali e paghiamo tutte le imposte richieste in ciascuno dei Paesi in cui operiamo”. In base agli accertamenti – inizialmente disposti dalla Procura Europea e poi, per una questione di competenza, coordinati dai pubblici ministeri milanesi e affidati, nel 2023, al Nucleo Pef della Gdf in collaborazione con l’Agenzia delle Entrate – Meta Platforms Ireland Limited, già Facebook Ireland Ltd, attraverso i due canali social, avrebbe offerto “servizi digitali agli utenti” italiani “in cambio dell’acquisizione e gestione per fini commerciali dei dati personali” di ciascuno e “delle informazioni inerenti relative interazioni sulle piattaforme”. In sostanza, si ritiene ci sia una permuta tra beni differenti e che, in quanto tale, debba essere soggetta all’Iva e quindi vada tassata.
Niente dichiarazioni per evadere le imposte
Invece i rappresentanti di Meta, per “evadere l’imposta”, non avrebbero presentato “le dichiarazioni relative” a sette anni. Come ha sottolineato il procuratore di Milano Marcello Viola, “la natura non gratuita dei servizi offerti” – nodo centrale dell’indagine – negli anni passati è “già stata affermata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, dal Tar del Lazio, oltre che da autorevole dottrina, e ha trovato riscontro nelle attività ispettive della Guardia di Finanza, negli atti dell’Agenzia delle Entrate e infine nelle risultanze dell’indagine penale”.
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