Il riconoscimento di mansioni superiori non dà diritto alla promozione automatica


Il caso e la questione di diritto

Un dipendente di un Consorzio di bonifica, assunto con contratto a tempo indeterminato e con mansioni di camparo (V livello della fascia funzionale), inizialmente veniva assegnato alla manutenzione degli impianti (III livello della fascia funzionale); successivamente, a seguito di trasferimento, il lavoratore ha svolto mansioni di ufficio. Dopo due anni, il ricorrente chiedeva un avanzamento di grado, negato dal Consorzio. Con un ordine di servizio era quindi disposta la sua assegnazione all’ufficio tecnico. Il dipendente, tuttavia, rappresentava la sua impossibilità all’espletamento delle mansioni tecniche a causa di un diagnosticato schiacciamento di vertebre. In seguito, quindi, veniva trasferito prima in una sede operativa e poi in un’altra ove – secondo il ricorrente – svolgeva le mansioni di usciere restando all’interno di una stanza, in solitudine, venendogli richiesto solo di consegnare la posta.

Il Tribunale rigettava la domanda di mansioni superiori, mentre la Corte di appello solo per un determinato periodo temporale gli riconosceva il superiore inquadramento della V fascia funzionale del contratto collettivo Consorzi di bonifica, con condanna al pagamento delle differenze maturate in detto lasso temporale. Il lavoratore ricorreva in Cassazione al fine di vedersi riconosciute le mansioni superiori anche per il periodo successivo sino al suo anticipato pensionamento. Inoltre, per i medesimi fini, chiedeva al Tribunale tutti i danni, fisici, morali e biologici, subiti in conseguenza della mancata attribuzione delle mansioni riconosciutegli dalla Corte di appello per il periodo successivo. Il Tribunale rigettava la domanda sostenendo, in sintesi, che i medesimi fatti erano stati già oggetto di valutazione prima da parte della Corte di appello, poi dalla Cassazione, in quanto l’oggetto della domanda verteva sul rapporto di lavoro nella sua interezza. Il lavoratore ha quindi interposto appello avverso la sentenza di primo grado.

La Corte di appello, tuttavia, ha rigettato il ricorso ritenendolo infondato. In primo luogo, la Corte afferma che per il primo periodo, in cui al lavoratore era stato comunque accertato lo svolgimento di mansioni superiori, si era formato il giudicato. La precedente statuizione della Corte di appello era ormai divenuta irrevocabile determinando l’impossibilità di vagliare la richiesta di risarcimento del danno per l’espletamento di mansioni dequalificanti. La Corte di appello evidenzia, del resto, che la stessa richiesta di demansionamento si pone in contrasto, almeno per il primo periodo, con il riconoscimento di mansioni addirittura superiori.

Per il periodo successivo, sino al pensionamento, la Corte di appello ha ritenuto, invece, che non sia intervenuto alcun illegittimo demansionamento. In primo luogo, il ricorso proposto dal dipendente è stato sul punto dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte, dunque, a differenza del periodo precedente, non vi è un accertamento passato in giudicato dello svolgimento di mansioni superiori, il che certamente consente di poter vagliare la domanda del ricorrente. Dalle risultane istruttorie, tuttavia, non risulta dimostrata la condotta illegittima del datore di lavoro di concreta sottrazione degli adempimenti e dei compiti assegnati al lavoratore o di confinamento dello stesso in una condizione di inoperosità. Dunque, nessun demansionamento ha avuto luogo, bensì unicamente la restituzione del dipendente a mansioni proprie della sua qualifica di appartenenza (III fascia funzionale), dopo un periodo di assegnazione a mansioni superiori, per le quali il dipendente ha ottenuto le relative differenze retributive a seguito della sentenza della Corte di appello, ma non anche il diritto alla promozione automatica ex art. 2103 c.c. e all’acquisizione definitiva del superiore inquadramento (V fascia funzionale).

In altri termini, per il primo periodo il dipendente ha svolto mansioni d’ordine, di segreteria e collaborazione amministrativa, amministrativo contabile, tecnica e agraria, superiori alla sua qualifica e riconducibili alla V fascia funzionale; nel secondo periodo, sino al pensionamento, il lavoratore è tornato a svolgere mansioni proprie della sua qualifica di appartenenza (III fascia funzionale).

La Corte evidenzia, infine, la contraddittorietà della tesi del demansionamento sostenuta dal ricorrente rispetto alle rivendicazioni avanzate nel precedente giudizio in cui sono state riconosciute mansioni superiori.

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L’assegnazione a mansioni superiori e la promozione automatica

Le conclusioni della Corte di appello sono condivisibili, non foss’altro per l’evidenziata contraddittorietà insita nella proposizione del ricorso rispetto al riconoscimento delle mansioni superiori ad opera di un precedente giudizio instaurato dallo stesso lavoratore.

L’art. 2103, comma 7, c.c., come modificato dal D.Lgs. n. 81/2015, afferma che nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

La giurisprudenza ha sostenuto al riguardo che al lavoratore che agisca in giudizio per ottenere il riconoscimento del diritto alla cosiddetta promozione automatica ex art. 2103 c.c. incombe l’onere di allegare e provare gli elementi posti a fondamento della domanda, cioè di aver svolto, in via continuativa e prevalente, per il periodo previsto dalle norme collettive o dallo stesso art. 2103 c.c., mansioni riconducibili al superiore inquadramento rivendicato (Trib. Bari, Sez. lav., 17/1/2019, n. 79).

In particolare, secondo la giurisprudenza, il giudice, al fine di accertare un’eventuale violazione dell’art. 2103, comma 7, deve accertare le effettive mansioni svolte dal lavoratore; individuare in quale livello contrattuale esse si collocano; poi confrontare i risultati di tale operazione logica con le altre declaratorie dei contratti collettivi che definiscono livelli funzionali e retributivi più elevati (Cass. civ. 4/10/2006, n. 21338; Cass. civ. 10/3/2004, n. 4946; Cass. civ. 6/7/2001, n. 9165; Cass. civ. 10/4/2001, n. 8166; App. Palermo, Sez. lav., 5/1/2022).

La dottrina – seguita dalla giurisprudenza ormai consolidata (Cass. civ. 14/8/2001, n. 11125; Trib. Roma, Sez. lav., 10/8/2019, n. 5722; Trib. Bari, 3/12/2018, n. 4349; Trib. L’Aquila, 22/5/2013, n. 341; Trib. Teramo, 20/3/2013) – aveva già sottolineato come nelle ipotesi di promozione automatica occorre verificare che l’assegnazione alle mansioni superiori sia stata piena, nel senso che abbia comportato l’assunzione della responsabilità e l’esercizio dell’autonomia proprie della corrispondente (superiore) qualifica.

La Suprema Corte poi ha reiteratamente affermato che, per poter ritenere integrata la “frequenza e sistematicità” di brevi assegnazioni a mansioni superiori cumulabili ai fini dell’acquisizione del diritto alla cosiddetta promozione automatica, non è sufficiente la semplice reiterazione del comportamento, occorrendo, se non un vero e proprio intento fraudolento del datore di lavoro (non suscettibile di presunzione), una programmazione iniziale della molteplicità degli incarichi ed una predeterminazione utilitaristica di un siffatto comportamento (Cass. civ. 25/10/2018, n. 27129; Cass. civ. 11/2/2004, n. 2642; App. Roma, Sez. IV, 15/1/2021, n. 43).

Di particolare interesse sul tema è la recente sentenza della Cass. civ. 9/7/2024, n. 18744. Nella specie,il lavoratore agiva in giudizio richiedendo accertarsi il suo diritto all’inquadramento nella terza categoria, decorso il termine di 18 mesi di permanenza nella seconda categoria, ritenendo che il mero decorso del tempo nel livello inferiore gli attribuisse il diritto alla promozione automatica.

Tale opzione interpretativa veniva avallata dai Giudici di merito, sia di primo sia di secondo grado, secondo cui la disposizione contrattuale era da interpretarsi nel senso di attribuire al lavoratore il diritto alla promozione automatica nella terza categoria, una volta superato il periodo di 18 mesi di inquadramento nella seconda categoria. La Cassazione ha affermato sul punto che la disposizione del CCNL Metalmeccanici Industria prevedeva che il passaggio dei lavoratori dalla seconda alla terza categoria potesse avvenire, previo accertamento della capacità del lavoratore concretamente dimostrata di svolgere funzioni di livello superiore e che tale capacità dovesse essere accertata attraverso la sperimentazione di un periodo di almeno un mese in compiti di livello superiore, trascorsi 18 mesi nell’espletamento delle funzioni proprie della professione, ritenuti di regola sufficienti ad acquisire le necessarie capacità. Sotto questo profilo, dunque, la Corte evidenzia che la norma contrattuale è chiara nel subordinare il passaggio di categoria ad un preciso e previo accertamento della capacità del lavoratore concretamente dimostrata di svolgere funzioni di livello superiore; circostanza che evidentemente esclude ex se qualsivoglia automatismo nel passaggio alla categoria superiore.

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Inoltre, in tema di mobilità verticale verso l’alto o assegnazione a mansioni superiori, di cui al comma 7 del novellato art. 2103 c.c., si tende a valorizzare l’autonomia privata individuale attraverso un nuovo inciso “salva diversa volontà del lavoratore”. Il lavoratore, quindi, può evitare che tale assegnazione diventi definitiva. La dichiarazione del lavoratore non si configura come un rifiuto di essere assegnato a tali mansioni temporaneamente, ma come una dichiarazione di volontà che impedisce il prodursi dell’effetto legale.

Pertanto, la dottrina ha efficacemente osservato che l’attribuzione temporanea di mansioni superiori debba essere subordinata all’accettazione del lavoratore che potrà valutare in piena autonomia la convenienza di una siffatta evenienza. La proposta del datore di lavoro di compiti più qualificanti potrà ottenere il consenso del prestatore, estrinsecabile nelle forme espresse o tacite note al nostro ordinamento giuridico positivo, od il suo rifiuto, pienamente legittimo ed in alcun modo sanzionabile non costituendo né una forma d’inadempimento contrattuale né un’infrazione disciplinare. L’esercizio dell’autonomia privata individuale del lavoratore deve essere manifestato all’atto di adibizione a mansioni superiori temporaneo o comunque prima del verificarsi dell’effetto legale. Si è in presenza di una espressa esibizione di volontà unilaterale che impedisce il perfezionamento dell’assegnazione a mansioni superiori definitiva. Seguendo questa ricostruzione dottrinale, l’art. 2103 c.c., comma 7, c.c. è una norma derogabile individualmente attraverso una dichiarazione del lavoratore direttamente interessato. È perciò possibile ipotizzare – al fine di evitare possibili contenziosi – la presenza anche di un accordo bilaterale con la finalità di escludere l’effetto legale e automatico della promozione.

Riferimenti normativi:

Art. 2103, comma 7, c.c.

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