EuroStack: ultima chance per la sovranità digitale europea


La dipendenza dell’Europa dalle tecnologie digitali americane e cinesi rappresenta una minaccia significativa per la sua sovranità, sicurezza e competitività economica.

Per affrontare questa sfida, è essenziale sviluppare un “EuroStack“, un ecosistema digitale integrato che copra tutti i livelli, dai chip alle applicazioni, garantendo così l’autonomia tecnologica del continente.

La minaccia geopolitica della dipendenza digitale europea

Facciamo un esempio per capire meglio: cosa succederebbe se domani mattina Donald Trump telefonasse a Ursula von der Leyen e le dicesse: o l’Europa mi dà la Groenlandia o io vi stacco tutti i nostri servizi digitali e la vostra società si ferma?

Se vi pare fantascienza, ripensateci: viviamo un momento storico in cui i contratti e i patti di alleanza valgono meno della carta in cui sono scritti, di fronte agli interessi nazionali e alle nuove strategie geopolitiche della prima superpotenza mondiale.

Già negli ultimi decenni gli Stati Uniti non hanno mai esitato a porre embarghi contro i leader, i governi e le imprese di nazioni su cui volevano esercitare pressione, vietando a qualunque azienda americana di intrattenere qualunque rapporto commerciale con loro; finora abbiamo pensato che l’Europa non ne sarebbe mai stato l’obiettivo, ma non esiste alcuna garanzia in proposito.

E se i funzionari di Bruxelles insistono a dire che ogni azienda e ogni nazione accetterà qualunque condizione pur di avere accesso al ricco mercato europeo, la stagnazione economica e il declino geopolitico a cui il nostro continente sembra condannato rendono legittimo più di qualche dubbio: noi abbiamo bisogno dei servizi digitali almeno quanto le big tech hanno bisogno del mercato europeo. Gli Stati Uniti sono ben consci di questo, al punto che uno dei primi ordini esecutivi di Trump intima alla sua amministrazione di combattere tutte le norme europee che possano danneggiare gli interessi e il fatturato delle aziende americane.

Eppure, se come europei ci troviamo in questa situazione, la colpa è nostra. Abbiamo creduto nella globalizzazione, nel libero commercio mondiale, nell’idea che qualunque regolamentazione di Internet, dei suoi contenuti e dei suoi mercati fosse superflua o addirittura dannosa. Abbiamo accettato che le nostre imprese digitali e le nostre startup innovative venissero spazzate via, strozzate o acquisite dagli americani, ritenendo che non sia un problema se tutta la nostra infrastruttura immateriale per i servizi online proviene dall’altra parte dell’Atlantico. Il risultato è una condizione di dipendenza strategica che non erode più soltanto le nostre entrate fiscali e la nostra occupazione, ma direttamente la nostra sicurezza nazionale e la nostra libertà.

I limiti dell’approccio normativo alla sovranità digitale

Finalmente, già da qualche anno, la dipendenza dell’Europa dalle aziende tecnologiche globali è stata identificata come una debolezza fondamentale, almeno a Bruxelles, Berlino e Parigi; sul tema, l’Italia risulta invece praticamente non pervenuta. Anche a livello delle istituzioni europee, comunque, si è fatto soprattutto quel che abbiamo sempre fatto: introdurre leggi, leggine e normative varie.

Eppure, questo non è sufficiente; ci manca la costruzione dell’alternativa. Abbiamo bisogno di aziende da accelerare, di capitali per accelerarle e di un qualche tipo di mercato protetto che possa sostenere gli early adopter; abbiamo bisogno di farlo non a macchia di leopardo, ma a tutti i livelli della nostra infrastruttura digitale. Abbiamo bisogno di un “EuroStack” di soluzioni, dai chip fino alle app sui cellulari, ma come ci possiamo arrivare?

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La crescente consapevolezza europea sulla sovranità tecnologica

Rispetto a cinque anni fa, l’Europa ha perlomeno fatto un passo avanti: il concetto di “sovranità digitale” è ormai comunemente accettato nei dibattiti politici e normativi europei. Un po’ ovunque, a Bruxelles e nella maggior parte delle altre capitali, dai palchi delle conferenze e nei comunicati stampa, i politici che seguono il tema si lamentano del fatto che la nostra economia e tutte le nostre vite si basano sui prodotti e sui servizi di poche grandi aziende americane o cinesi. Questa dipendenza danneggia l’Europa su molti piani, dalla sicurezza nazionale al gettito fiscale, dalla privacy alla competitività, dai livelli di occupazione alla stessa democrazia. Peraltro, anche se si volesse considerare il tema strettamente in termini di economia di mercato, la scarsa concorrenza e la concentrazione di quasi tutto il mercato in pochissime mani è un chiaro indicatore di fallimento.

Perché le normative europee da sole non sono sufficienti

La soluzione, a parole, è semplice: basta sviluppare prodotti europei che costituiscano una valida alternativa, che possano essere usati al posto di quelli americani e cinesi. L’Europa ha grandi capacità; abbiamo innovatori e imprenditori, sviluppatori di software e progettisti di hardware, ricercatori e accademici. Tuttavia, per un motivo o per l’altro, nel settore Internet queste capacità non riescono praticamente mai a trasformarsi in aziende di successo e in prodotti di uso comune.

La passata Commissione Europea, la prima di von der Leyen, ha individuato il problema nella mancanza di concorrenza sul mercato. La linea di ragionamento, più o meno, è stata questa: noi europei saremmo capaci di sviluppare prodotti e costruire aziende vincenti, ma non lo possiamo fare perché abbiamo perso l’attimo dell’innovazione distruttiva – gli smartphone prima, il cloud poi, e ora l’intelligenza artificiale – e quando abbiamo iniziato a inseguire abbiamo trovato mercati già chiusi. La soluzione, quindi, è riaprire i mercati a forza, per imposizione di legge.

Il ragionamento, poi, prosegue così: le nostre leggi, al contrario delle nostre aziende, sono state un grande successo. Il GDPR ha cambiato l’approccio alla privacy delle aziende globali, costringendole a chiedere agli utenti numerosi consensi con una valanga di moduli e popup, e ha dimostrato che l’Europa può farsi obbedire e può diventare un leader planetario della normazione, visto che molti altri Stati hanno poi copiato i nostri schemi. A questo punto, basta regolamentare i mercati digitali secondo lo stesso modello – applicabilità globale e multe salatissime – e il problema sarà risolto.

Di conseguenza, nell’ultimo paio di anni sono entrati in vigore diversi nuovi atti legislativi europei; per primo il Digital Markets Act, che cerca di impedire alle aziende dominanti di rinchiudere i clienti nei loro “giardini recintati” e di ostacolare la concorrenza. Queste nuove leggi stanno lentamente iniziando a essere applicate; ci vorrà del tempo per vederne gli effetti. Eppure, al momento, è cambiato ancora poco.

La necessità di un intero ecosistema di soluzioni europee

Per chi vive i mercati dall’interno, il motivo della scarsità di effetti è chiaro: la regolamentazione può ripristinare le condizioni per una concorrenza leale, ma da sola non è sufficiente. Anche se esiste la possibilità di competere, anche se un gruppo di sviluppatori è tecnicamente in grado di produrre un’app di messaggistica valida quanto WhatsApp o un sistema di intelligenza artificiale valido quanto ChatGPT, le nuove offerte non conquisteranno mai quote di mercato significative se chi le realizza non dispone dei capitali necessari per crescere, per farsi conoscere e per fornire servizi su larga scala. Inoltre, i mercati non sono congelati soltanto dalle eventuali pratiche anticompetitive delle big tech: anche chi in Europa compra servizi digitali ha le sue responsabilità, spesso rimanendo legato alle aziende dominanti da una ragnatela di contratti in essere, relazioni interpersonali, mancanza di consapevolezza e paura di cambiare.

Inoltre, una vera autonomia digitale richiede di disporre di alternative per tutti gli anelli della catena; se ne manca uno, la dipendenza rimane. Non abbiamo bisogno soltanto di una nuova app, ma di un intero ecosistema di soluzioni europee; se le nuove app o i nuovi servizi online funzionassero sul cloud dei tre hyperscaler americani e su hardware interamente prodotto in Cina, saremmo ancora vincolati. In sostanza, abbiamo bisogno sia delle soluzioni individuali, sia della loro integrazione verticale; in breve, abbiamo bisogno di un “EuroStack”.

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Eurostack: modelli di cooperazione per costruire l’alternativa digitale europea

L’idea dell’EuroStack non è nuova, ma negli ultimi mesi ha preso vita grazie a un incontro al Parlamento Europeo e a due diversi rapporti, uno coordinato dall’economista Cristina Caffarra e un altro dall’ex presidente di CDP Venture Capital Francesca Bria. Si tratta in pratica di un libero movimento di opinione; chiunque condivida l’obiettivo di promuovere la nascita di alternative europee ai servizi digitali globali può agire secondo le proprie opportunità.

La necessaria cooperazione tra pubblico e privato

Infatti, fino a qualche mese fa, l’iniziativa per lo sviluppo di alternative digitali è rimasta saldamente nelle mani della Commissione Europea e al massimo di qualche governo, ma la mobilitazione delle imprese e della società civile ha tardato ad arrivare. Un progetto così ambizioso richiede però la partecipazione di tutti gli stakeholder; prova ne sia che i tentativi solamente pubblici visti negli scorsi anni non hanno ancora costruito granché, producendo scarsi risultati o fallimenti totali. Per esempio, i tentativi dell’Unione Europea di rendere contendibile il mercato delle infrastrutture per il cloud, prima attraverso nuove norme e poi attraverso GAIA-X, non hanno portato alcun cambiamento significativo; la quota di mercato delle aziende cloud europee, anche le più grandi, è in costante diminuzione.

A volte questi tentativi sono stati maldestri o minati da presupposti errati; altre volte sono stati indeboliti dall’azione diretta o indiretta dei grandi player dominanti. A volte, la questione è stata ideologica: finora le istituzioni europee non hanno voluto attaccare l’ideale del libero commercio globale e dell’apertura incondizionata agli altri blocchi geopolitici, anche se dall’altra parte l’apertura non è simmetrica.

openDesk e La Suite Numérique: i modelli che stanno funzionando

Tuttavia, esistono modelli che invece sembrano funzionare; ad esempio la cooperazione franco-tedesca che ha portato a openDesk e La Suite Numérique, due progetti paralleli e coordinati per realizzare un’alternativa alle piattaforme chiuse e proprietarie – principalmente Microsoft Windows, Office 365 e correlati – per l’uso lavorativo da parte degli impiegati della pubblica amministrazione.

Si tratta in sostanza di una cooperazione tra pubblico e privato: le aziende europee, anche se di piccole dimensioni, federano e integrano i propri prodotti e i propri servizi per costruire un pacchetto completo, mentre il settore pubblico guida la domanda, promuovendo la partecipazione e fornendo i requisiti lato utente, e agisce come early adopter, garantendo un ritorno economico quasi certo agli investimenti. In questo modo si crea un circolo virtuoso, in cui la spesa pubblica ha una ricaduta locale in termini di posti di lavoro, e insieme permette alle aziende di crescere e di perfezionare il prodotto fino a renderlo competitivo anche per gli acquirenti privati. Questo modello, però, richiede che i governi siano disposti a privilegiare nelle proprie gare i prodotti europei su quelli stranieri, o perlomeno a preferirli a parità di condizioni.

Va notato come questo tipo di progetti possa esistere soltanto grazie all’open source e agli standard aperti, poiché essi consentono la cooperazione libera tra aziende diverse. L’arcipelago europeo di paesi, lingue, mercati e PMI può unire le forze soltanto grazie alla standardizzazione delle interfacce e dei protocolli, necessaria per poter integrare tra loro i prodotti di aziende diverse senza eccessivi sforzi; in questo modo, anche piattaforme molto estese e complesse possono essere suddivise in componenti più piccole che possono essere realisticamente sviluppate dalle singole aziende. Un simile approccio modulare evita anche di essere vincolati ai singoli vendor europei, permettendo di rimpiazzarli facilmente nel momento in cui fosse necessario.

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L’importanza degli appalti pubblici e dell’adozione di massa

Sul mercato dei servizi digitali, gli utenti finali votano con i propri soldi. Il settore pubblico, che ha requisiti di sicurezza, privacy e localizzazione dei dati mediamente più stringenti dei privati, può permettersi di prendere decisioni strategiche prima ancora che operative; può decidere che utilizzare piattaforme sviluppate e mantenute localmente sia più importante che avere un’interfaccia utente colorata e accattivante o un insieme di funzionalità più avanzato. Il settore privato e i consumatori finali hanno meno obblighi, e sono anche meno tenuti a essere razionali e strutturati nelle proprie scelte d’acquisto.

Per questo, il successo di massa delle alternative europee può arrivare soltanto concentrandosi sulla promozione, sul marketing e sull’adozione dei prodotti da parte degli utenti finali; e comunque, la raccomandazione di “comprare europeo” non potrà mai portare l’utente a scegliere prodotti più costosi o di qualità inferiore. Sempre per questo, vanno bene i cospicui fondi che l’Europa investe da decenni in ricerca e prototipazione, ma bisogna porsi il problema di come trasformarli poi in nuove aziende di successo; per questo, è opportuno concentrare per qualche anno i finanziamenti su ciò che veramente può avere un impatto.

La supposta disparità nella qualità dei prodotti digitali

Ad ogni modo, c’è da chiedersi se tutto questo divario di qualità esista davvero. A volte è così, e indubbiamente è necessario investire, talora con il supporto pubblico, per portare le alternative europee allo stesso livello dei migliori concorrenti globali. In molti casi, tuttavia non c’è un vero divario; i prodotti europei sembrano strani perché sono diversi. Le piattaforme big tech sono talmente pervasive da dare assuefazione; siamo così abituati a esse che la fatica del cambiamento sembra troppo elevata, anche se si tratta solo di adattarsi a una nuova posizione e forma delle icone.

In altri casi, il divario è creato artificialmente dall’impossibilità di interoperare con gli altri prodotti delle big tech; questo è appunto ciò di cui si deve occupare la regolamentazione, che deve poi essere anche applicata e fatta rispettare, un particolare di cui spesso le istituzioni europee si sono dimenticate. In passato, le azioni per attuare le regole sulla concorrenza sono spesso state “too little too late”; per un gigante globale, anche una multa di un miliardo di euro dopo dieci anni di cause in tribunale può essere troppo poco per indurre cambiamenti. In un mondo in cui gli altri paesi sono pronti a vietare intere app o a nazionalizzarle a forza se ciò è nell’interesse nazionale, l’Europa non deve farsi problemi a intervenire per garantire la correttezza della concorrenza sui mercati digitali, specialmente quando a fare le spese dei comportamenti anticompetitivi sono le aziende europee.

Una responsabilità collettiva per la sovranità digitale

Ogni strato dello stack digitale è differente. Per alcuni di essi, l’iniziativa privata può essere sufficiente, ad esempio federando i prodotti disponibili o introducendo standard di interoperabilità; per altri, ad esempio la produzione dei chip, può essere necessario un investimento pubblico diretto. Tutti i ragionamenti sui singoli strati devono diventare una strategia organica, in modo da non escludere alcun anello della catena. Ogni livello dell’EuroStack deve essere trattato come parte di una strategia organica, concentrando gli sforzi e gli investimenti su ciò che è urgente e che effettivamente manca.

A monte, comunque, è necessario che la politica sposi pienamente questo obiettivo, usando saggiamente la capacità di intervento che le è attribuita dalla possibilità di spendere i soldi dei contribuenti. Gli appalti pubblici possono essere la chiave per avviare e accelerare lo sviluppo e l’adozione di nuovi prodotti, rendendoli infine pronti per competere sui mercati B2B e B2C. La nuova Commissione von der Leyen ha dichiarato l’intenzione di dare priorità ai prodotti europei negli appalti pubblici, ma resta tutto da vedere se all’intenzione seguiranno i fatti; ed è inoltre necessario che la spesa privilegi i progetti strategici e innovativi.

Nel frattempo, ognuno di noi – come utente, come tecnico, come imprenditore – deve iniziare a sentirsi parte di questo progetto collettivo. La responsabilità è nostra; le aziende devono offrire prodotti che valga la pena acquistare e scegliere fornitori che contribuiscano all’indipendenza digitale europea, invece di limitarsi come talora accade a rimarchiare codice e dispositivi prodotti altrove. Gli utenti devono chiedersi se davvero vogliono continuare a dare i propri dati e i propri soldi a un oligopolio americano, che oltretutto è divenuto ora parte integrante e ben allineata di un’aggressiva strategia geopolitica di predominio globale.

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Tutto questo, alla fine, determinerà il benessere e la libertà delle società europee. In un mondo in cui i dazi, le guerre fredde e persino gli scontri militari riemergono rapidamente, se l’Europa – come espressione politica e come area geografica – continuerà a dipendere da piattaforme globali e proprietarie, sarà inevitabilmente destinata al declino.



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