Alla conferenza di Roma è stato inaugurato il Fondo Cali, strumento di compensazione finanziaria a favore dei popoli indigeni e dei paesi del sud globale con più biodiversità. Le aziende biotech che hanno usato liberamente il Dna di specie endemiche scoperte da popoli indigeni potranno volontariamente versare una piccola quota dei profitti fatti in questi decenni
La Cop16 di Roma sulla biodiversità si è conclusa giovedì con un accordo che ha lasciato in equilibrio la finanza per la natura, vero tema dell’incontro. Per portare avanti il piano (Global Biodiversity Framework) di protezione degli ecosistemi, sono stati stanziati 200 miliardi di dollari l’anno, di cui 20 miliardi di finanza pubblica entro il 2025.
Cop16 ha deciso una serie di regole per erogare questi fondi, che devono arrivare ai paesi in via di sviluppo in modo rapido, equo, inclusivo, semplice e non discriminatorio. Deve essere ancora deciso se verrà creato un nuovo fondo, gestito dalle Cop, o se si userà uno esistente, che i paesi poveri considerano troppo rigido e vicino alle posizioni dei paesi ricchi, il Global Environmental Facility.
“Fondo Cali”
A margine di queste decisioni, è stato inaugurato un altro fondo, che è il portale per comprendere quanto è diventato complesso il nostro rapporto con la biodiversità. Si tratta di un fondo di compensazione finanziaria a favore dei popoli indigeni e dei paesi con più natura.
A riempirlo dovranno essere le aziende biotech che in questi anni hanno usato liberamente sequenze genetiche digitalizzate di specie provenienti da quei paesi.
La formalizzazione del “Fondo Cali” mostra come il negoziato multilaterale sulla biodiversità non ha solo a che fare con la protezione della natura, ma anche con i limiti etici e legali al suo sfruttamento economico. Sul tema anche l’ambientalismo è diviso: per il Wwf è una buona misura di giustizia ambientale, ma per organizzazioni più legate ai diritti umani come Centro internazionale crocevia è una legalizzazione della biopirateria digitale praticata dalle industrie farmaceutiche, cosmetiche, sementiere, biotech.
La ministra per l’Ambiente della Colombia, Susana Muhamad, guida del negoziato sulla biodiversità, ha salutato il fondo come un giusto compromesso a un problema che era da decenni in attesa di una risposta.
Vuoto normativo
La domanda a cui risponde è: come riconoscere il lavoro di conoscenza e protezione della natura di comunità locali del sud globale e dei popoli indigeni, nei casi in cui il campione genetico di una specie endemica scoperta da quei popoli è stato preso, codificato, inserito in una banca dati digitale pubblica e da lì scaricato da un’azienda, che ha usato quel genoma per brevettare un prodotto.
Questi passaggi avvengono in un vuoto normativo, perché la capacità di sviluppo genetico e digitale è andata più velocemente della possibilità di mettere regole, argini o garanzie. La risposta presentata a Cop16 è che nessuno sarà in grado di riempirlo, questo vuoto normativo, e che l’unica strada praticabile è veicolare una piccolissima quota dei profitti a compensare decenni di prelievo industriale dagli ecosistemi.
Con il Fondo Cali le aziende che hanno fatto uso di sequenze genetiche digitalizzate (Dsi) «possono» (il verbo è fondamentale, possono e non devono) mettere in questo fondo gestito dalle Nazioni unite l’1 per cento del loro fatturato o lo 0,1 per cento dei profitti legati a quel Dna.
Perché dovrebbero pagare per qualcosa che possono e potranno avere comunque gratuitamente? Secondo Astrid Schomaker, direttrice della Convenzione Onu sulla biodiversità, la risposta è: «Per motivi di reputazione e pubbliche relazioni, perché le aziende riconoscono che siamo in una fase di collasso ambientale e devono contribuire finanziariamente alle protezione di quegli ecosistemi da cui traggono prodotti e profitti». È un’idea quanto meno ottimistica di come va il mondo e soprattutto di come va il mondo in questa fase storica.
Il fondo è aperto e operativo, è una sorta di salvadanaio da riempire a piacere. La metà delle risorse andrà direttamente ai popoli indigeni che si occupano degli ecosistemi più biodiversi. Al momento dell’annuncio, nessuna azienda si è ancora fatta avanti, ma i promotori del fondo assicurano che ci sono contatti avanzati. Inoltre, gli Usa (e relative aziende) non fanno parte della Convenzione sulla biodiversità e quindi sono fuori dalla giurisdizione del fondo, che è comunque volontario e quindi esclusivamente legato al buon cuore e alla buona volontà dei privati.
Biocolonialismo
Possiamo chiamarle «sequenze genetiche digitalizzate», cioè la formula ufficiale, oppure «biopirateria digitale», cioè la sua lettura politica: in ogni caso è una prosecuzione tecnologica del colonialismo.
Nella seconda metà del secolo scorso c’è stato il vasto prelievo di campioni da parte dei ricercatori occidentali nei paesi più ricchi di natura. I progressi della genetica hanno permesso di sequenziare il Dna di queste piante. Poi, quando è stato tecnologicamente possibile, quel materiale è stato digitalizzato e, tramite collaborazioni come International Nucleotide Sequence Database Collaboration (Insdc), reso aperto e messo a disposizione di tutti.
Qui inizia il vuoto normativo: questi campioni digitali non hanno più nessun legame con le piante fisiche o gli ecosistemi da cui erano stati estratti, non c’è più bisogno di andare in Sri Lanka, Papua Nuova Guinea o Congo per fare ricerca su semi o piante. Sono dati o sono materiale biologico? Sono anni che non si riesce a rispondere a questa domanda, nel frattempo la ricerca di base su questa versione smaterializzata della natura è diventata ricerca applicata, trasformata in brevetti e prodotti.
Quelli agricoli sono governati da un trattato Fao, per quelli farmaceutici, cosmetici o biotech non c’è nemmeno questo argine. Nel frattempo l’intelligenza artificiale applicata alla biologia ha ampliato la possibilità di estrarre prodotti da informazioni genetiche digitali.
Come spiega Francesco Paniè di Centro internazionale crocevia, «il fondo Cali è la resa a chi ha la forza e la capacità di gestire questi dati. Ora con questo strumento al massimo sono tenuti a una compensazione monetaria, soltanto volontaria. In questo modo i popoli indigeni vengono trasformati in lavoratori malpagati e senza diritti della conoscenza, che devono ricevere solo il minimo indispensabile per continuare a gestire gli ecosistemi».
Siamo su un confine sottile tra ricerca, libertà di impresa e giustizia sociale. Come spiega Paniè, «stiamo ricreando un mondo in cui il nord globale continua a brevettare liberamente la biodiversità che si trova nel sud globale».
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