cucina di mercato con chef toscano e giovane brigata • Food and Wine Italia


Luca Natalini è, a tutti gli effetti, figlio d’arte. Dal nonno Carlo Maria Mariani, artista e pittore di fama internazionale, ha ereditato una profonda vena creativa, che ha saputo trasformare in una personale espressione estetica attraverso la cucina. Nel suo accogliente Autem, in zona Porta Romana a Milano, tra boiserie verde scuro, banconi rivestiti di listelli di rovere italiano e piani in marmo toscano, lo chef originario di Pescia, in provincia di Pistoia, dà forma, da quasi due anni, alla sua cifra stilistica. Al centro della sua visione culinaria ci sono le materie prime, protagoniste di un menu che segue il ritmo della natura: una carta bianca che si rinnova giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, in un dialogo continuo con la stagionalità.

Com’è iniziata la tua avventura ad Autem? 

Quando il locale era finalmente pronto, mi sono ritrovato senza un soldo: ogni risparmio era stato investito lì, fino all’ultimo centesimo. Così, dopo tre giorni trascorsi tra mille pensieri e qualche inevitabile lacrima, ho deciso di affidarmi alla mia brigata — la stessa che ancora oggi mi affianca — chiedendo loro una piccola colletta al Mercato di Porta Romana per acquistare i primi ingredienti da portare in cucina. Il menu ha iniziato a prendere forma a mano, non per scelta stilistica, ma per necessità: non c’erano risorse nemmeno per stamparlo. Quello che sembrava un limite si è trasformato nella nostra identità, dando vita a un percorso di cucina di mercato, un principio che ci appartiene profondamente e che ancora oggi ci definisce.

Perché il nome “Autem”?

In latino significa “ancora” o “e inoltre”. Un concetto che, prima di tutto, mi suonava bene: l’idea di esprimere qualcosa che deve ancora essere detto, una connessione tra opposti che non si è ancora rivelata.

Qual è la sfida più grande del menu in carta bianca?

È come se, in un certo senso, stessimo riscrivendo il concetto di fine dining: non più legato al cambio di menu stagionale o alle tendenze del momento, ma a una scelta quotidiana, dettata da ciò che il mercato offre di più bello. Ci assumiamo tutte le responsabilità di questo approccio “borderline” nella creazione dei piatti: un giorno può essere branzino, un altro acciuga, un altro ancora sarda, sempre in base alla stagione e alla disponibilità. Le materie prime vengono presentate ai clienti all’ingresso del ristorante, svelate da un cassetto nascosto dietro il bancone della cucina. In estrema sintesi, un nuovo concetto di dispensa in continua evoluzione.

Come si traduce questo approccio nella pratica?

L’imprevedibilità è parte del gioco: se le condizioni meteo impediscono ai pescherecci di uscire, invece del pesce ci orientiamo su lumache o tuberi. Non siamo noi in prima persona a raccoglierli — sarebbe un’utopia — ma lavoriamo a stretto contatto con piccoli produttori che ci guidano nelle scelte. Può capitare che mi dicano: “Luca, i fiori che ami in questo periodo sono stati distrutti dal clima. Prova invece questa radice di prezzemolo: è altrettanto buona e magari ti offre anche un valore in più”. È un dialogo continuo con la natura e con chi la coltiva, che ci permette di costruire ogni giorno un menu unico, in equilibrio tra istinto e consapevolezza.

Con chi collabori per la selezione delle materie prime?

Uno dei fornitori di cui vado particolarmente fiero è l’Azienda Agricola Daniotti a Siziano (PV), che ci fornisce erbe spontanee, fiori e una grande varietà di prodotti vegetali. Per le lumache ci affidiamo a La Casina della Chiocciola, nel novarese, mentre per i piccioni e le colombacce lavoriamo con l’Allevamento La Colombaia a Collodi. Infine, per le carni bovine, ci affidiamo all’Azienda Agricola San Giobbe a Chiusi, una realtà che garantisce qualità e attenzione al benessere animale. 

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C’è una materia prima che ti rappresenta di più?

Da buon toscano, dico le carni, e in particolare il piccione, anche se devo ammettere che amo cucinare le parti vegetali e i pesci.

C’è qualcosa che ti lascia perplesso nel settore in questo momento storico?

Al di là delle polemiche sterili, ciò che mi dà veramente fastidio del comparto horeca è la difficoltà che molti giovani incontrano nel poter realizzare i propri sogni. C’è una carenza di opportunità concrete, e troppo spesso vedo talenti sacrificati o ignorati, senza che riescano a emergere o costruire un percorso proprio. Questo frena la creatività e la crescita dell’intero settore.

Qual è il complimento che apprezzi di più?

Ce n’è uno che mi fa letteralmente impazzire: “Non vedo l’ora di tornare”. Ed è proprio su questo concetto che torniamo al fine dining: non deve essere un’esperienza da vivere solo una volta all’anno, ma qualcosa che invogli le persone a tornare. La vera soddisfazione sta nel creare un legame con il cliente, nella fidelizzazione. Per farlo, non è tanto il menu a fare la differenza, quanto la curiosità e l’emozione che il cibo può suscitare ogni volta che varcano la porta del ristorante.

Quali sono i tuoi piatti emblematici?

Uno è sicuramente la Pasta in bianco: spaghetti nudi e puri, cotti nel vermouth di prugne, con aceto di riso e alloro bruciato. Poi, direi il piccione, che preparo con grande attenzione, e il crostino toscano che racchiudo all’interno di un raviolo. Un altro piatto distintivo è quello a base di lumache, servite come una sorta di bourguignonne. L’insalata di anguilla è un altro esempio di contrasto, così come la battuta di cavallo, accompagnata dal suo fondo e da un’ostrica.

In tutto quanti siete in cucina e sala e qual è l’età media della brigata di cucina?

Ad oggi siamo in 12 con età media di 25. Sono ragazzi giovani entusiasti e piuttosto motivati nell’offrire all’ospite non solo un’attenzione di riguardo, ma soprattutto un’esperienza conviviale.

Tre sostantivi per definire Autem

Qualità (materia prima), calore (servizio) e atmosfera (locale). In particolare, tengo molto a quest’ultimo concetto, da intendere come accoglienza, quella del cuoco che, con un bel sorriso, dice: Buonasera e benvenuti da Autem”.



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