28 Febbraio 2025
Articolo di Redazione
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I cinesi si muovono silenziosi con il libretto degli assegni in mano. I russi appaltano mercenari e stringono alleanze per uscire dall’isolamento diplomatico. La Francia ha il foglio di via. L’Europa, non pervenuta. Stati Uniti, disinteressati (a parole).
E la Turchia? Ankara si presenta come una tessitrice di equilibri nelle ingarbugliate dinamiche africane.
Poche righe rappresentano una sintesi acrobatica e stereotipata delle molto più complesse dinamiche che muovono le potenze straniere in Africa. Anche se poi, altra sintesi, tutte sembrano essere guidate da due imperativi prevalenti: il portafoglio e la sicurezza.
Ma la Mezzaluna turca è un caso che si distingue dagli altri. Da almeno 10 anni è riuscita a riprendersi un posto al tavolo internazionale che conta, insinuandosi negli interstizi diplomatici che si sono aperti nello scacchiere geopolitico. E porta con sé anche quell’elemento identitario religioso che, strumentalizzato ad hoc, può fare miracoli.
La Turchia ha pazienza. Non è una centometrista. Ma una maratoneta. Impossibilitata a competere sotto il profilo economico con Cina, petromonarchie del Golfo, europei e in parte anche con i russi, Ankara alimenta la sua penetrazione nel continente con un approccio di lungo periodo.
Non temendo di irrompere nei conflitti sparsi un po’ ovunque in Africa, ha inaugurato un nuovo genere diplomatico: le visite di stato nelle aree senza stato, nei paesi avvitati nelle crisi, come Somalia e Libia, considerate da Recep Tayyip Erdogan dei trampolini di lancio sul Mediterraneo e sul mar Rosso.
Perché poco se ne parla, ma Ankara sta ingrassando la propria Marina proprio per arrivare ad avere, se non il controllo, almeno una influenza significativa nei 3 mari di prossimità – il Mar Nero, l’Egeo e il Mediterraneo – e anche nei porti africani che si affacciano sull’Atlantico.
In riva al Bosforo sono consapevoli di essere una potenza media per risorse. Ma con ambizioni da grande. La Turchia è presente in regioni chiave come Nordafrica, Sahel, Corno d’Africa, con puntate nell’Africa occidentale e centrale. Certo, non è sbarcata nel continente per fare beneficenza.
I suoi obiettivi strategici, economici e militari sono evidenti. Tuttavia, più di altre potenze straniere è brava a utilizzare la presenza diplomatica e socioreligiosa per mostrare le virtù di un partner alternativo ai paesi ex colonialisti, agli Stati Uniti, e alla stessa Cina il cui modus operandi sta suscitando sospetti in alcuni governi africani.
È la famosa terza via turca: paese musulmano industrializzato, senza un passato imbarazzante o belligerante nel continente e che non dispiace ai paesi africani.
Un modello pragmatico, basato sulla non interferenza, il rispetto della sovranità e la non condizionalità politica. Sono gli ingredienti del suo soft power, che incarna l’accresciuta offensiva diplomatica della Mezzaluna.
La creazione di legami diplomatici e talvolta personali tra leader è uno di questi. Un altro è l’investimento sull’elemento umano: la formazione di studenti e imam; la concessione di agevolazioni finanziarie per completare gli studi nelle università anatoliche; la costruzione di scuole e moschee.
Il Diyanet, l’amministrazione turca responsabile degli affari religiosi, è attivo in quasi tutto il continente. La seconda moschea più grande dell’Africa occidentale è stata interamente finanziata da Diyanet e inaugurata ad Accra nel 2021.
Ma Ankara non utilizza solo la dimensione religiosa come leva di soft power. Strumenti di penetrazione, poco analizzati, sul ruolo della Mezzaluna in Africa, sono le serie televisive turche che si sono imposte un po’ ovunque e che influenzano la società civile.
Antimperalismo, protezione regionale, mediatrice nelle crisi, difesa della fede: la nuova strategia di politica estera turca ha rotto con il suo tradizionale approccio cauto e le consente di avere già oggi un ruolo non marginale nella ridefinizione degli equilibri geopolitici africani.
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