Nel duello geopolitico tra blocchi il bis romano è stato un pareggio. Ma ha visto anche emergere nuovi arbitri, come il Brasile che sul tema vuole il ruolo che ha la Cina sul clima
La Cop16bis di Roma chiusa nella sera di giovedì 27 febbraio alla Fao sotto l’abile guida della ministra colombiana Susana Muhamad era un esercizio politico delicato. In caso di successo si vinceva poco, ma si sarebbe perso tanto in caso di sconfitta. Il naufragio di un negoziato multilaterale sulla natura a poco più di un mese dall’inizio dell’èra della motosega trumpiana sarebbe stato difficile da reggere.
Come ha detto Muhamad, questa coda del negoziato di ottobre in Colombia «ha dato gambe, braccia e muscoli» agli obiettivi decisi alla Cop15 di Montreal. In quell’occasione erano stati stabiliti 23 target al 2030 e 4 obiettivi a lungo termine al 2050, tra cui proteggere il 30 per cento dei suoli e degli oceani e restaurare il 30 per cento degli ecosistemi degradati. Quell’accordo del 2022 si chiamava Global Biodiversity Framework e aveva un’ambizione da accordo di Parigi sul clima.
Per essere all’altezza di quell’ambizione, era stato deciso che il flusso finanziario per implementare gli obiettivi sarebbe stato di 200 miliardi di dollari l’anno. La domanda a cui Cali a ottobre non era riuscita a rispondere e alla quale Roma in questo insolito tempo supplementare ha trovato una formula era: chi li deve erogare questi fondi? A che condizioni? Secondo quali regole?
Nuovi equilibri
Sembrano solo parametri tecnici, ma attraverso questi parametri tecnici si intravedono nuovi equilibri globali. I paesi del nord globale volevano usare un fondo finanziario già esistente, chiamato Gef, Global Environment Facility. I paesi in via di sviluppo detestano il Gef, perché ha sede a Washington, è in mano ai paesi ricchi, è collegato alla Banca Mondiale, è difficile accedere in modo diretto e facile ai fondi, che devono passare attraverso banche multilaterali di sviluppo o agenzie Onu, che a loro volta pongono condizionalità rigide per l’uso dei soldi.
Insomma, sulla finanza per la natura i ricchi (tra cui soprattutto quelli europei) non vogliono dare a nessuno assegni in bianco, mentre i poveri, che ospitano la maggior parte della biodiversità, non vogliono ricevere assegni con sopra scritto come usare i soldi.
Per questo motivo, le parti del sud globale (soprattutto gli africani) chiedevano la creazione di un nuovo fondo, che fosse gestito direttamente dalla Cop sulla biodiversità, uno strumento finanziario meno condizionato dalla geopolitica (e magari dagli umori del Trump di turno) e più facile da accedere, più inclusivo, meno burocratico.
Il risultato finale è, come sempre, un compromesso. Si è deciso di prendere tempo, è stata stabilita una roadmap tra qui e il 2030 per un nuovo modo di raccogliere e distribuire la finanza per la natura. I parametri e le regole del gioco sono esplicitamente quelli chiesti dal sud globale: il fondo deve essere «giusto, semplice, veloce, equo, inclusivo e non discriminatorio».
Questa ultima specifica è una vittoria di paesi come Russia o Iran, che hanno ottenuto di ricevere fondi per la natura anche in caso di sanzioni. Attualmente però questo percorso viene ancora fatto dentro la struttura vecchia, quella che fa sentire i paesi ricchi più al sicuro che la biodiversità venga protetta come dicono loro, il Global Environmental Facility, ma non è detto però che sarà così a lungo, né che saranno Europa, Regno Unito, Australia o Canada a dare le carte, mentre gli Usa in questo negoziato sulla biodiversità non sono mai entrati.
Il pareggio
Nell’eterno duello geopolitico tra i blocchi, Cop16 è stata un pareggio, in cui sia l’occidente che il sud globale sentono di aver tutelato le proprie posizioni e di potersi far valere in futuro. La vera novità politica però è l’emergere di nuovi arbitri forti, primo tra tutti il Brasile, che proverà a essere sulla biodiversità quello che la Cina è per il clima. Sono i nuovi leader di un mondo che si sta riconfigurando, sta perdendo le certezze e sta rimodellando le gerarchie.
Se proprio dovessimo cercare un vincitore, in questa Cop, sarebbe il blocco Brics. Sono loro ad aver preso in mano il negoziato nei momenti più critici, con la leadership esplicita del Brasile e il lavoro sporco della Russia dietro le quinte, e sono stati sempre loro ad aver fatto la proposta che ha sbloccato l’impasse. I Brics hanno usato la Cop16 per mandare a centinaia di paesi smarriti dalla motosega di Trump il seguente messaggio: «Siamo noi la risposta alle vostre domande sul futuro».
Non è un cambiamento da poco. Se altrove i Brics si muovo già compatti e politicamente organizzati, alle Cop su biodiversità e clima non erano ancora mai emersi come un soggetto politico autonomo. Ma sono le cose che succedono quando, per diversi motivi, i leader del mondo vecchio (Usa, Ue) evaporano.
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