Lo show di Trump in mondovisione dopo i dazi, la Cina di Xi incassa un altro regalone


«Zelensky diventa un duro, Trump perde la faccia e gli ucraini perdono la vita». È uno dei tanti commenti degli utenti cinesi su Weibo, dopo il disastroso incontro tra il presidente ucraino e quello statunitense. Sui social, le opinioni non sono sempre allineate. C’è chi loda Zelensky per aver mostrato che «non ha paura del potere», chi invece dà ragione a Trump perché «Usa e Nato hanno armato e tenuto in vita l’Ucraina per 8 anni».

Molti sono convinti che a trarre beneficio dall’incidente sia proprio la Cina. «Trump pensa che Zelensky non abbia carte in mano, invece ha la carta europea e quella cinese. Siamo noi i principali beneficiari della rottura tra Stati uniti e Unione europea», recita un commento con centinaia di condivisioni.

È proprio questo lo snodo che emerge dai resoconti dei media, che parlano di una «gara di urla» che «mette a nudo le profonde divergenze tra Stati uniti e Ucraina riguardo alla risoluzione della crisi», obiettivo che potrebbe essere «più lontano del previsto». Il governo per ora tace, come da prassi, anche se sin qui ha sempre lodato gli sforzi di Trump nel voler negoziare con Mosca.

Ma in realtà quello andato in scena nello Studio ovale è uno spettacolo destinato ad avere un alto gradimento da parte della Cina, che (non da solo) lo interpreta come la dissoluzione in tempo reale della residua affidabilità degli Usa. Per il Partito comunista, ben più pronto a far fronte a Trump rispetto al suo primo mandato, si tratta di un notevole regalo.

CON LA PRIMA RAFFICA di dazi, Pechino si sta ergendo a grande difensore del libero commercio. Con l’abbandono “tossico” di Kiev, la Cina punta ad affermarsi come potenza responsabile e garante di stabilità. Rispetto alla fallimentare e aggressiva «diplomazia dei lupi guerrieri» di qualche anno fa, ora si è capito che basta tenere un profilo accomodante o persino restare in silenzio, per trarre vantaggi dal caos creato da Trump presso alleati e partner degli Usa.

Ecco perché la sensazione è che, piuttosto di volere un ruolo da protagonista nel processo negoziale sull’Ucraina, Xi Jinping miri a restare defilato. O, meglio, a tentare di ergersi al di sopra dei colloqui. D’altronde, farsi vedere al fianco di Trump in questa fase non pare certo un beneficio, mentre suggerire o indicare una presa di distanza dai metodi imprevedibili e noncuranti di alleanze pluridecennali potrebbe portare a vantaggi diplomatici nei rapporti con l’Europa.

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Non a caso, proprio ieri l’agenzia di stampa statale Xinhua ha avvisato che Xi ha intenzione di promuovere a livello globale la cosiddetta «iniziativa della Cina pacifica». Contestualmente, il leader cinese ha ricevuto il segretario del Consiglio di sicurezza russo Sergej Shoigu, auspicando un ulteriore rafforzamento dei rapporti bilaterali e segnalando ancora una volta che le teorie di un “Kissinger bis” (con Trump impegnato a favorire una rottura tra Pechino e Mosca) paiono destinate a restare delle fantasie.

Il trattamento riservato a Zelensky, così come era accaduto con il ritiro di Joe Biden dall’Afghanistan, servirà inoltre alla Cina per lanciare un monito ai vicini asiatici. Come a dire: «Non fatevi arruolare da Washington in crociate anti cinesi, perché poi quando avrete bisogno del loro aiuto vi abbandoneranno». Biden ha passato quattro anni a cercare di rassicurare gli alleati regionali, riuscendo a rinsaldare un’architettura di sicurezza che ora però rischia di sgretolarsi.

I FILMATI in cui Trump e Vance umiliano Zelensky vengono osservati con particolare sgomento a Taiwan, dove c’è chi inizia a temere un simile trattamento da parte degli Usa, il cui comportamento potrebbe allo stesso modo accelerare le azioni di Pechino. Taipei sta faticosamente cercando un modo per ammansire la Casa bianca con acquisti di armi e accordi sulle catene di approvvigionamento, ma senza cedere al diktat del trasferimento tecnologico sui chip.

Preoccupazione anche in Giappone, dove il premier Shigeru Ishiba continua a covare la tortuosa idea di una Nato asiatica, e in Corea del sud. A Seul cresce il partito di chi vorrebbe sviluppare armi nucleari autoctone per non dipendere dall’America. Un desiderio che si sta pericolosamente insinuando a diverse latitudini.



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