di Aldo A. Mola
Mentre l’Europa centro-occidentale sembra espulsa dalla Storia, chiusa nella tenaglia, sino a pochi mesi addietro imprevista, tra Usa e Federazione russa, che ribadisce unità d’intenti con la Cina, giova tornare su genesi e destino dell’Italia. Essa non è nata ieri.
Un Paese ricco di storia.
Come la generalità degli Stati, l’Italia odierna è sintesi di geografia e di storia. Però è un paese speciale. Essa ha una configurazione fisica più caratterizzata di altri e un popolamento civile da oltre duemilacinquecento anni. Anzitutto ha un bell’aspetto. Per coglierlo basta un’occhiata alla carta fisica. Dall’Europa centro-occidentale la penisola si protende nel Mediterraneo. E’ saldata al continente dalle Alpi, formidabile catena montuosa che prosegue con gli Appennini dalla Liguria alla Calabria. Circondata su tre lati dal mare, l’Italia è coronata da grandi e piccole isole che fanno da approdo e difesa.
A differenza di molti paesi europei affacciati sulle tre sponde del Mediterraneo, l’Italia ha confini nitidi sia per chi ci vive, sia per chi le si avvicini da Oltralpe, dal mare o la contempli dall’alto. Chi abita la pianura padana vede le Alpi e le sente: un “destino storico”, barriera che attrae e che protegge. Volgendo lo sguardo da un promontorio ligure, toscano o campano si insegue la continuità delle coste a perdita d’occhio. Lo stesso vale per il versante adriatico, dal Gargano ad Ancona e all’Istria. La geografia detta agli abitanti una vocazione unitaria, la continuità nel tempo e nello spazio.
L’Italia è un paese ricco di storia. I caratteri fisici ne hanno segnato il popolamento e l’organizzazione politica. Protetto dalla natura e vario all’interno, il territorio infuse negli abitanti l’illusione della sicurezza e il gusto della particolarità: i monti fermeranno il nemico, il pericolo verrà avvistato per tempo, qualcuno ci penserà… Eppure, e forse per questo intreccio di forza e debolezza, nei millenni l’Italia subì scorrerie, invasioni e assalti dalle Alpi e dai mari.
Perdute l’unità e l’indipendenza con la fine dell’impero romano in Occidente (476 dopo Cristo, secondo la datazione convenzionale), impiegò quindici secoli per conquistarle. La liberazione dal dominio straniero si identificò con l’avvento dell’unificazione, che non significa ossessione centralistica, ma unione dei suoi popoli in uno Stato, con un governo e una lingua comune: l’italiano.
Però, a differenza di altri paesi europei, dai confini molto più labili dei suoi, lo Stato italiano ha solo 165 anni. E’ più recente non solo rispetto a quelli di maggiori dimensioni come Spagna, Francia, Gran Bretagna e la Confederazione germanica, ma anche a tanti minori, come Svizzera, Paesi Bassi e regno dei Belgi. Tuttavia i suoi abitanti sono accomunati da quasi venticinque secoli. La sintesi di quella lunga durata è Roma, la Città Eterna.
Romanità/latinità
Tra Sette e Ottocento, nell’età franco-napoleonica, nuovamente invasa e teatro di battaglie dopo mezzo secolo di pace pressoché assoluta, albeggiò il proposito di fare dell’Italia un Stato indipendente. Tra i primi ad accennarne le premesse fu il sacerdote Carlo Maria Denina (Revello, Cn, 1731-Parigi, 1813) nell’ultimo capitolo di Delle Rivoluzioni d’Italia. Termine di confronto di quel progetto fu la Roma di due millenni prima: quella consoli e dei Cesari, del senato e del popolo, dei cavalieri e delle plebi, dell’impero, basata anche sull’abuso degli schiavi tratti da popoli vinti o dal loro mercato, e della cristianizzazione. Secoli di conquiste e di alleanze, di aggregazioni forzate e di patti fecero dell’antica a Repubblica romana una costruzione politica senza precedenti nell’antichità. Ne scrisse con ammirazione lo storico tedesco Theodor Mommsen in un’opera un tempo obbligatoria nelle scuole civili e militari, anche perché vi spiegò le origini e conseguenze delle guerre civili. Da Ottaviano Augusto l’impero regolò la coesistenza, sia delle genti sia dei loro costumi e dei culti che non fossero incompatibili con la legge.
I Romani edificarono repubblica e impero con l’unione dei popoli: non un’ammucchiata, ma coesione e vita nuova. Negli Annali, poema sulle origini leggendarie di Roma, lo scrisse il poeta Quinto Ennio (239-169 a. C.) parlando della sua terra nativa: “Siamo romani noi, che prima eravamo di Rudi”, un villaggio presso Taranto). Originario di una cittadina di provincia era divenuto cittadino romano, parte di un destino accomunante, dal particolare all’universale. Perciò la letteratura, cioè la forma più alta della civiltà, comprendente la lingua del diritto, della poesia e della storiografia, non fu e non viene detta romana ma latina, frutto di autori che nella capitale arrivarono dai luoghi più disparati: Gneo Nevio dalla Campania, Livio Andronico da Taranto, Tito Livio da Padova, Virgilio Marone da Pietole, presso Mantova, Orazio da Venosa di Lucania, Ovidio da Sulmona, Tacito da Terni, Svetonio forse da Bona (ora Algeria)…e così via per secoli. Lo stesso valeva per architetti (Vitruvio, un genio talmente universale che una dozzina di città ne rivendicano i natali), artisti, scienziati e infine comandanti di legioni e gli stessi imperatori: Traiano e Adriano, iberici, i Severi, “libici” di Leptis Magna, Diocleziano, illirico, Costantino, nato nella Mesia, Giustiniano, illirico a sua volta. La storia dagli italici agli italiani, fu scandita dal confronto con la Prima Italia, sintetizzata nell’Ara Pacis di Augusto.
L’unificazione avviata due secoli orsono ha radici nella romanità.
L’Italia del Terzo Millennio è il punto di arrivo di processi storici, che nel corso del tempo ne hanno plasmato gli abitanti. Gli italici erano individuati come tali e distinti dagli altri popoli euro-mediterranei più di duemila anni prima che nascesse lo Stato odierno. Le genti che vivevano nelle terre via via sottomesse dalla Repubblica romana o che anche prima del crollo dell’impero e nei secoli seguenti affluirono nella penisola dalle Alpi o dal mare, pur conservando proprie peculiarità, in tempi più o meno lunghi si fusero con i suoi abitanti. Quell’insieme di popoli formò poco a poco la nazione italiana. Il lemma “nazione”, oggi abusato, non deve trarre in inganno. Esso è nato solo con la rivoluzione francese, anzi, precisamente, con l’avvento della repubblica. Per arroccarsi contro il nemico interno, da sterminare sbrigativamente, il governo chiamò i francesi alla guerra contro la coalizione che ne minacciava i confini. Vinse e venne legittimato non solo in Francia ma anche nell’entusiasmo dai chi, come Goethe, vi vide l’aurora della novella storia.
In Italia il termine nazione non ebbe, né mai poté avere, significato di identità etnica o di razza. Non solo oggi, ma anche nell’antica Roma bastava uscire di casa per vedere la varietà delle genti che vi vivevano. Tuttavia sia nell’antichità sia nel Medioevo la gente italica fu distinta dalle altre (franchi, germani, spagnoli…), ogni volta che se ne presentò occasione o bisogno: per esempio nelle Università, ove gli studenti, che vi si esprimevano in latino, erano dette “lingue” dalla loro parlata originaria.
Adattamento e durata dei popoli d’Italia
In tutti i paesi europei i popoli, insieme di genti accomunate da lingua, religiosità, usi e tradizioni, esisterono prima che nascesse lo Stato moderno e perdurano al di là della forma istituzionale e dei governi che li amministrano. Gli italiani, dunque, erano tali assai prima della proclamazione del regno d’Italia notificata il 17 marzo 1861 sua “Gazzetta Ufficiale”, anche se, né quel giorno né per molti anni, non venne riconosciuto dai maggiori Stati d’Europa.
La loro capacità di reggere ai contraccolpi della storia è mostrata dai due eventi fondamentali degli ultimi centosessantacinque anni.
Il primo riguardò la loro “coscienza”, il rapporto tra la vita terrena e l’eterna. Oggi questo è un esile filo sommerso nella quotidianità che tutto assorbe e ottunde. Nell’Ottocento l’Italia era un paese quasi esclusivamente cattolico: una fede radicata nella netta distinzione tra i salvi, le anime purganti e i dannati per l’eternità, sottoposti a sempiterne torture fisiche. Gli unici ad amministrare i sacramenti e a decidere le sorti ultraterrene dei viventi erano i sacerdoti.
L’unificazione comportò la fine dello Stato pontificio. Pio IX scomunicò Vittorio Emanuele II, il governo, l’intera “macchina” del regno d’Italia. Le coscienze furono lacerate. Uomini politici e funzionari dello Stato dovettero fare i conti “in casa”. Non solo negli anni più acuti del conflitto ma acnora decenni dopo anche anticlericali e massoni notori mandavano figli e nipoti a studiare in convitti religiosi. Sembrava dunque che dovesse crollare il mondo. Invece fu solo un’increspatura nel flusso della storia. Lo stesso avvenne nel 1946, quando in Italia cambiò la forma dello Stato. La sostituzione della monarchia rappresentativa ereditaria con la repubblica elettiva non mutò le fondamenta del rapporto tra l’Italia e i suoi abitanti, accomunati dalla cittadinanza, cioè dall’insieme dei loro diritti e dei doveri nei confronti delle istituzioni.
E’ il “popolo” a dare nerbo allo Stato, altrimenti ridotto a un contratto, che regge se rende.
Il legame tra le persone e lo Stato è basato sul sentimento di appartenenza. E’ come il profilo dei monti, talora avvolto dalle nubi, e il colore del mare, che muta secondo le ore e, come quello del cielo, prima o poi torna azzurro. Così, essere italiani a volte è motivo di orgoglio, altre volte imbarazza. Tuttavia è l’italianità, cioè il riferimento ai due millenni di storia accomunante, a dare senso alla cittadinanza: un rapporto forte, non solo sentito ma dovuto perché si basa sulle leggi, che vincolano reciprocamente istituzioni e cittadini.
Radicata nella storia, la cittadinanza non è (o non dovrebbe essere) una sciarpa che si indossa e si posa secondo le stagioni. E’ un vincolo di reciprocità tra la persona e le istituzioni, un insieme di diritti riconosciuti e di doveri inderogabili. Il “popolo” è poesia. La cittadinanza è ragione. Sommate insieme popolo e cittadinanza sono, possono essere, lo statuto degli abitanti dell’Italia nel Terzo Millennio in navigazione verso nuovi orizzonti. Perciò è importante che, nativi o meno, quanti vi abitano siano, a norma di legge, regolarizzati e chiamati a concorrere a un destino accomunante. L’impero romano lo fece con l’editto del 212 d.Cr. emanato da Caracalla, uno tra gli imperatori romani meno famosi per la moralità dei costumi suoi e della sua famiglia.
La cittadinanza nel Terzo Millennio
Oggi la cittadinanza unisce gli italiani, ma la Repubblica non è il loro abito esclusivo. Lo Stato, infatti, non è più l’unico metro della loro identità civile, né il solo depositario della sovranità. Questa “appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Però proprio la Carta vigente dal 1948 riconosce principi sui quali sorgono la comunità internazionale e, nel suo ambito, organizzazioni internazionali e sovranazionali. La Repubblica accetta quali fonte di diritto l’Organizzazione delle Nazioni Unite, il Parlamento europeo, l’Unione Europea e le molte altre istituzioni, alle quali ha liberamente e irrevocabilmente ceduto e via via ha trasferito e trasferisce sovranità. Il Parlamento ha anche contratto nel tempo alleanze difensive, quale la Nato, con ripercussioni quotidiane sulla vita di tutti i cittadini, militari e civili. La sua sicurezza è tanto maggiore quanto più prevale la sovranità universale rispetto alla gara tra potenze, fatalmente incline allo scontro armato. Perciò non vanno plauditi gli alleati che irridono i patti, tanto più quando ne sono stati i promotori e garanti primigeni. “Pacta servanda…”, proprio nell’interesse dei più deboli, che li hanno sottoscritti non per cupidigia di servilismo tra tra pari, secondo la tradizione europea.
La Costituzione italiana, in vigore dall’1 gennaio 1948, è in linea con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, enunciata a Parigi il 10 dicembre dello stesso anno, ma i cui capisaldi erano già contenuti nel preambolo dello Statuto delle nazioni Unite ( 25 giugno 1945). Non solo. L’articolo 2 della Costituzione riconosce “diritti inviolabili dell’uomo”, cioè preesistenti alla Carta stessa. Essi sono limite invalicabile sia dal legislatore sia dall’amministrazione della giustizia. Lo Stato, infatti, riconosce tribunali soprannazionali e ne accetta le sentenze non solo quando riguardino suoi conflitti contro cittadini stranieri ma anche a suo carico. Non di rado, infatti, lo Stato italiano viene condannato a risarcire i cittadini proprio per cattiva amministrazione della giustizia. Non è titolo di vanto per la “culla del diritto”.
Infine nelle relazioni internazionali l’Italia non dovrebbe entrare in contraddizione con i principi enunciati nella Carta. Per esempio, la Costituzione afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Pertanto lo Stato non dovrebbe stringere la mano a rappresentanti di regimi che ignorano, rifiutano e esplicitamente disprezzano i capisaldi della Carta; diversamente fa intendere ai cittadini che i principi fondamentali della Carta nella quale si riconoscono valgono secondo le coordinate geografiche o le opportunità: una realtà che il cittadino può comprendere che accada, ma non può essere ammessa quale regola di condotta dello Stato se non negandolo alla radice e precipitandolo nell’anarchia.
L’ordinamento dell’Italia odierna è frutto della storia dei popoli che l’hanno abitata e dei loro rapporti con gli altri Stati. Alla radice vi è l’uomo come persona: punto di arrivo del pensiero greco-latino e delle conquiste scientifiche e civili.
L’unificazione politica dell’Italia non si compì con la proclamazione del regno d’Italia, da parte del Parlamento, il 14 marzo 1861. Esso, infatti, non coronava l’obiettivo di far coincidere i confini politici con quelli che da millenni i geografi avevano individuato come Italia. Essa ha appena un secolo. Data dall’inclusione in Italia della città di Fiume (1924): una data lasciata passare quasi sotto silenzio per non rievocare il dramma postbellico del confine orientale. Nondimeno, sin dall’avvento del regno lo Stato di diritto, cioè basato sulla legge, sembrò assicurare o quanto meno promettere il massimo di equilibrio e il minimo di contrasto fra individualità e universalità. Ci volle mezzo secolo prima che il diritto di voto venisse conferito a tutti i maschi, anche se analfabeti. Alle donne esso venne riconosciuto nel 1925, ma solo nelle elezioni amministrative, cioè dei consigli comunali e provinciali, che però subito dopo il regime di partito unico sostituì con podestà e prèsidi (poi rettori).
Lo Stato di diritto non era né volle essere Stato etico, cioè depositario e dispensatore di codici di comportamento in conflitto i diritti di libertà. Negli ultimi cento anni due guerre mondiali, nate come guerre europee e finiti con il lancio d due bombe atomiche sul Giappone da parte degli Stati Uniti, i totalitarismi, la decolonizzazione, un’onda lunga destinata a durare nel tempo, e la globalizzazione hanno messo a nudo i limiti morali, prima ancora che giuridici, degli Stati e hanno riproposto la persona quale fondamento della comunità e dei rapporti tra popoli e cittadinanza, tra interessi particolari e planetari, della validità dei sistemi politici.
Per comprendere il ruolo che gli italiani possono svolgere nel processo storico in corso dopo questo primo quarto del XXI secolo giova ripercorrerne sinteticamente il passato sino all’avvento dell’Unificazione.
DIDASCALIA: Monumento di Carlo Denina (Revello, Cn, 1731-Parigi, 1813), opera dello scultore Alfonso Balzico, donato alla città di Saluzzo dal nipote Vincenzo Denina (1874).
Nel capitolo XXV di “Le rivoluzioni d’Italia”, pubblicato nel 1793, dopo l’avvento della repubblica in Francia, egli vaticinò l’avventò del patriottismo italiano. Vagliate le “forze” degli italiani, con diciannove milioni di viventi, se avesse formato uno “Stato federativo” come la Prussia, gli stati italiani avrebbero potuto agevolmente allestire un esercito di almeno 160.000 soldati e, col sistema in vigore in Svizzera, avrebbe potuto contare su un milione di cittadini formati alle armi.
L’impero ottomano aveva altre priorità che assalire l’Italia. I russi non potevano attaccarla con forze terrestri e qualsiasi potenza l’avesse aggredita dal mare non sarebbe poi riuscita a dominarla sulla terraferma. L’Italia era dunque “sicura da assalti esterni, piucché non sia stata giammai”. “Meno armigera che non era ‘a tempi Romani, e meno vantaggiosamente commerciante che nel secolo XV, l’Italia è nondimeno più ricca che non allora”. Con l’esportazione del riso e della seta bilanciava le importazioni di generi di lusso: zucchero, caffè e altre droghe. In sintesi, nel suo insieme non era seconda a nessun altro paese europeo. “Lontanissima dal caso di tentar conquiste, l’Italia ha quante forze le possono abbisognar per sua difesa. L’antico valore che da tanti secoli i poeti non cessano di rammentare, rinascerebbe, o crescerebbe col patriotismo (sic) di cui si accusano gli italiani esser privi”.
Dunque, a differenza di quanto affermò Vitilio Masiello nell’introduzione a “Le Rivoluziono d’Italia” (Utet, 1879) il mite abate, attento osservatore della realtà, non era dunque affatto chiuso in un’ottica arcaica. “Il patriotismo – osservò- è figlio della rivalità nazionale; e la virtù, che nel senso dei politici non è che valore o bravura, nasce e cresce in mezzo alle guerre: nella pace immancabilmente languisce e si estingue”. Esso sarebbe risorto se animato “da una identità d’interessi e da un centro d’unione, che non sarebbe difficile di trovare appunto colà dove già era una volta”: a Roma. In assenza di prìncipi italiani sui quali far conto, incluso Vittorio Amedeo III, impossibilitato ad assumere iniziative armate per ingrandire il regno di Sardegna, Carlo Denina propose quali modelli i “papi guerrieri” come Gregorio Magno e Leone I: lontanissimi dai pontefici del Settecento.
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