L’Europa perde competitività: irrinunciabili profonde riforme con l’occhio alle pensioni e al mercato del lavoro


Epicenter e l’Istituto Bruno Leone hanno lanciato un programma per il mercato unico europeo che ricalca il Rapporto Draghi. Servono cambiamenti profondi per rilanciare la crescita facendo i conti con la crisi demografica

Epicenter e l’Istituto Bruno Leoni (Ibl) hanno pubblicato nei giorni scorsi un “Programma per un mercato unico europeo”, al fine di incrementare, sulla scorta del Rapporto Draghi, la competitività della struttura produttive e dei servizi dell’Unione. La quota dell’Unione europea nell’economia mondiale si è ridotta dal 25,8% nel 2004 al 17,6% nel 2024. L’economia dell’Ue sta perdendo terreno rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. Tale riduzione è una conseguenza della bassa cre­scita economica sostenuta e delle sfide demografiche in Europa. La crescita economica dell’Ue è rimasta debole negli ultimi 20 anni, con diversi episodi di recessione che hanno compromesso la modesta crescita degli anni “buoni”. La crescita, inoltre, è stata guidata dai nuovi Stati membri, con l’indice del Pil basato sul 2010 che ha raggiunto i 140-200 in quasi tutti i Paesi dell’Europa centrale e orientale, mentre ha ristagnato in alcune delle economie meridionali.

Le cause della perdita di competitività dell’Unione europea

La Ue, secondo il Rapporto, sta perdendo competitività per diversi motivi:

  • La libertà economica in Europa è inferiore rispetto agli Stati Uniti, soprat­tutto per quanto riguarda il peso del governo e la pervasività delle norma­tive. L’Ue è competitiva per quanto riguarda il sistema giuridico, la stabilità della moneta e la libertà di commercio e di investimento. Tuttavia, le tasse elevate, l’eccessivo intervento pubblico e l’alto debito, nonché le normati­ve troppo rigide, ne minano i vantaggi competitivi.
  • Il mercato unico dell’Ue è una grande storia di successo, a suo modo uni­ca a livello mondiale. Tuttavia, il mercato unico non ha sprigionato appieno il suo potenziale. Il mercato unico si è fermato a metà strada, con l’entu­siasmo iniziale per l’integrazione dei mercati sostituito dalla stanchezza. Il completamento del mercato unico comporterebbe un valore aggiuntivo di 713 miliardi di euro in un decennio. Le imperfezioni del mercato unico sono tra le cause dell’indebolimento della crescita nell’Ue.

Negli ultimi tre decenni si è assistito in media a un declino della compe­titività, con un aumento del costo del lavoro non accompagnato da un incremento della produzione. La spesa pubblica in deficit è stata spesso utilizzata per incrementare i consumi interni e aumentare il costo del lavo­ro, anziché essere indirizzata verso investimenti produttivi. L’aumento del debito pubblico è una conseguenza dell’espansione della spesa pubblica soprattutto in tempi di crisi. I livelli di debito nei vari Stati membri dell’Ue presentano variazioni significative, con un impatto sia sulla libertà econo­mica che sulla flessibilità fiscale.

La perdita di competitività dell’Ue è in parte dovuta alla scarsa capacità di anticipare l’invecchiamento e al sottosviluppo dei fondi pensione in metà dei Paesi europei. Ciò aumenta il costo del lavoro, a scapito della com­petitività di prezzo delle imprese europee. Si riduce anche la quantità di capitale disponibile per finanziare la crescita e l’innovazione, il che spiega perché l’Europa è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti e ad altre regioni più attraenti.

Il ruolo cruciale dei sistemi pensionistici

Uno spunto interessante chiama in causa anche il sistema pensionistico come una delle cause di una inadeguata competitività.

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Il sottosviluppo dei fondi pensione è una vera e propria spada di Damo­cle per l’Europa, soprattutto con il calo della popolazione attiva sulla scia del cambiamento demografico.

  • In media, il deficit annuale associato al sottosviluppo del risparmio pre­videnziale nell’Ue rispetto alla media Ocse rappresenta il 2,4% del Pil nell’Ue-27, ovvero più di 350 miliardi di euro all’anno.
  • La competitività dei prezzi è strettamente legata alla struttura del sistema pensionistico. Quando il sistema pensionistico si basa su una significativa capitalizzazione, il finanziamento delle persone che diventano inattive è avviato dai contributi pensionistici e integrato dal rendimento dei rispar­mi, in particolare dai dividendi e dalle plusvalenze. Quando, invece, le pensioni sono finanziate a ripartizione, non c’è alcuna creazione di ric­chezza inerente al risparmio e tutte le prestazioni sono pagate dalla tassa­zione. Questo aumenta il costo del lavoro attraverso i contributi sociali o si aggiunge a tutte le altre forme di tassazione.

In assenza di dinamismo demografico, la capitalizzazione sembra essere il modo più economico di finanziare le pensioni. Beneficia dell’andamento dei mercati finanziari e finanzia pensioni più elevate rispetto a quelle a ripartizione. Una parte della pensione è autofinanziata dai guadagni degli investimenti (dividendi, plusvalenze, ecc.), il che riduce i contributi pensio­nistici per lo stesso livello di pensione.

  • L’Europa rimane fortemente dipendente dai sistemi a ripartizione per finanziare le pensioni. Il risparmio previdenziale genera una creazione di ricchezza inferiore all’1% del Pil all’anno in più della metà dei Paesi dell’UE, in particolare in Francia, Germania, Grecia, Italia, Lituania, Polonia, Slovacchia e Spagna. Al contrario, nei Paesi Bassi e in Danimarca il rispar­mio previdenziale genera una creazione di ricchezza annuale equivalente a 10 punti di PIL all’anno.
  • Le pensioni sono già state la principale fonte di crescita della spesa pub­blica negli ultimi 20 anni nell’Unione Europea. E tra qualche anno, il diva­rio si allargherà tra i pochi Paesi in grado di autofinanziare una parte signi­ficativa delle pensioni senza dover ricorrere a tasse o contributi, grazie ai guadagni generati dal risparmio previdenziale.
  • La capitalizzazione non solo preserva la competitività e il potere d’ac­quisto, ma anche le finanze pubbliche, consentendo di risparmiare sulle tasse e di riassegnarle al finanziamento di altre spese collettive. Non è un caso che i Paesi europei più avanzati in termini di finanziamento delle pensioni (Islanda, Danimarca, Paesi Bassi, Svizzera, ecc.) abbiano anche le finanze pubbliche più equilibrate.

La generalizzazione dell’uso dei fondi pensione dovrebbe essere una priorità per l’Unione europea, insieme al piano dell’UE sull’Unione dei mercati dei capitali e sui mercati finanziari. È fondamentale per la competitività e anche per recuperare il tempo perduto nel finanziamen­to dell’innovazione, poiché il sottosviluppo del risparmio pensionistico è dannoso per il finanziamento dell’economia e dell’innovazione, come sottolinea giustamente il recente rapporto sulla competitività pubblicato sotto la guida dell’ex presidente della Banca centrale europea (BCE) Mario Draghi.

Sfide e opportunità nel mercato del lavoro dell’Unione europea

Il rapporto – oltre ad altri aspetti come la fiscalità la burocrazia, l’eccesso di regolamentazione, l’arretratezza della digitalizzazione e la inadeguata integrazione economica, il fabbisogno energetico e la transizione ambientale  – affronta anche la problematica del mercato del lavoro e dei suoi effetti sulla competitività.

L’Ue dovrebbe prendere in considerazione norme più flessibili sulla tu­tela dell’occupazione, in particolare un’adeguata protezione dal licenzia­mento e norme sul periodo di prova per i lavoratori altamente qualificati. È necessaria una diversa cultura dell’»assumere e licenziare», soprattutto alla luce dei cambiamenti demografici, che richiedono mercati del lavoro più flessibili per impiegare la forza lavoro dove è più produttiva.

L’Ue dovrebbe promuovere l’integrazione del mercato del lavoro interno e stabilire accordi con altri Paesi per l’assunzione di lavoratori qualificati. Il riconoscimento delle qualifiche è essenziale. Paesi in forte crescita come l’India producono molti professionisti qualificati di cui c’è urgente bisogno e a cui potrebbero essere offerte nuove prospettive nell’Ue.

Competitività Ue: Italia malato d’Europa

Un paragrafo specifico riguarda l’Italia. Se l’Europa è il malato globale, l’Italia è il malato d’Europa. La produttività è stagnante da decenni e la crescita del prodotto interno lordo è asfittica. Dietro questa dinamica ci sono molte ragioni, alcune legate a specifiche scelte dell’U­nione europea, altre invece dovute alle politiche condotte a livello nazionale. In particolare, l’Italia si distingue dagli altri Stati membri dell’Ue perché ha una tassazione superiore, una regolamentazione più pervasiva e una situazione più insostenibile dei conti pubblici. Le radici della condizione italiana sono descritte – è una citazione del rapporto – nel libro di Nicola Rossi, Un miracolo non fa il santo.

Il nostro paese ha dunque la necessità di riforme ambiziose e profonde. Molte di tali riforme sono legate a quelle discusse a livello europeo in questo rapporto di Epicenter: anzi, da un certo punto di vista ne rappresentano l’estensione. L’Italia ha infatti bisogno di maggiore disciplina fiscale, taglio della spesa e delle tasse, riduzione della bu­rocrazia e una maggiore integrazione nell’economia globale. Inoltre, un paese come il nostro in cui la demografia d’impresa è pesantemente distorta verso le piccole o piccolissime imprese ha uno specifico interesse a un maggiore dina­mismo dell’economia digitale.

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Chi si prende la briga di spiegare queste considerazioni a Maurizio Landini?



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