Lo sguardo di Maria Liberti sul teatro greco-romano di Catania e sulla Casa Liberti, che su di esso si affaccia, nasce dal coinvolgimento affettivo di chi questi luoghi li ha ‘vissuti’ sin da bambina. E li rilegge, in età matura, come parte della propria storia personale oltre che parte della storia della città.
Il frutto di questa rilettura è un agile, intenso libretto, tra saggio e scrittura autobiografica, recentemente pubblicato dalla casa editrice Mimesis con il titolo “Casa Liberti. Uno sguardo sul teatro greco-romano”.
Destinata all’esproprio e ad una probabile demolizione per portare alla luce un’area più vasta del teatro, Casa Liberti viene invece salvata agli inizi degli anni Duemila, per iniziativa e sotto la direzione dell’allora Soprintendente Maria Grazia Branciforti, che la destina ad un uso museale, dando avvio ad un ‘nuovo corso’ nella vita dell’autrice e della città.
Nel momento di cui diviene bene comune – scrive l’autrice – acquista, infatti, un valore aggiunto, una “permanenza che altrimenti mai avrebbe avuto”. E apre a “nuove ripartenze”, a livello collettivo ed anche individuale.
La Soprintendenza, infatti, destina una parte dell’edificio ad accogliere i reperti recuperati negli scavi dell’area circostante e un’altra parte alle memorie della famiglia, la famiglia borghese che lì aveva vissuto tra Ottocento e Novecento e della quale vengono raccolti ed esposti mobili, libri, foto, documenti.
Si rende necessaria una donazione, decisa insieme alla sorella, sia dell’immobile sia degli oggetti. Una donazione vissuta dall’autrice con gioia, come garanzia che questi beni, amati come “stralci della memoria”, abbiano una nuova vita e vengano custoditi nel tempo, anche quando la famiglia non potrà contare su nuove generazioni che se ne prendano cura.
La casa di via Teatro Greco, diventando monumento, trova la sua ‘salvezza’ e acquista un ruolo per la città e, nel contempo, l’autrice trova nella scrittura una “casa” per la propria memoria. Le parole sono i mattoni che rendono la scrittura una dimora capace di salvare non solo la memoria ma la persona stessa, che vi trova una “forma duttile, generosa e insieme fedele di contenimento” delle sue esperienze, alle quali viene dato senso nel momento in cui vengono composte in una storia.
Una scrittura auobiografica che esplora aree profonde del proprio vissuto e che viene praticata anche come strumento di ‘cura’ di sé: restituire alla casa di via Teatro Greco la voce “intima, antica” che l’aveva caratterizzata, con i suoi giochi di luci, i suoni e gli odori, le presenze e le assenze, significa andare alla ricerca delle proprie radici, di quel patrimonio culturale, valoriale, affettivo di cui ognuno è portatore.
Una sorta di ‘archeologia del soggetto’ (Ricoeur), qui riletta come lo scavo interiore alla ricerca del proprio “archè” così come lo scavo archeologico vero e proprio va alla ricerca del fondamento dell’identità collettiva.
Due archeologie, quindi, con una analogia quanto mai opportuna dato che stiamo parlando di una casa che contiene memorie personali ma si affaccia su un teatro antico che è testimonianza di una vita e di una storia collettiva. Un luogo che resta uguale nel tempo, a differenza delle vite che su di esso di affacciano e che mutano continuamente: un contrasto che induce l’autrice ad aprire una riflessione sul tempo, altro grande protagonista di queste pagine.
Dal passato, dalla memoria, viene a Maria Liberti “una corrente vitale, una trasfusione di energia”, come accade con la figura del padre, per lei maestro e modello di quell’atteggiamento di cura da lui vissuto nei confonti dei pazienti ma anche di tutti gli affetti e che lei tradurrà e personalizzerà nel suo lavoro di insegnante.
I luoghi della memoria e dell’affetto non sono soltanto la casa e il teatro, ma anche la scuola, avendo lei frequentato fino al liceo l’Istituto di San Benedetto, e tutte le chiese e le strade di quella zona allora molto tranquilla, che le hanno trasmesso il gusto del silenzio e della bellezza.
E se a questi luoghi oggi la lega un sentimento di nostalgia, si tratta – come lei stessa precisa – di una nostalgia “buona”, non “ferita dal vuoto del non ritorno” ma piuttosto “colma della generosità del passato” e quindi capace di apprezzare la ricchezza del ricordo e di nutrirsene.
C’è sempre, in questo testo, una scelta accurata delle parole, l’uso di espressioni lapidarie e meditate che riescono ad esprimere l’intensità del sentire senza mai cadere nell’enfasi o peggio nel sentimentalismo, e che rimangono limpide e comunicative anche quando il ragionamento segue i percorsi non facili della riflessione filosofica, riuscendo a toccare punte poetiche.
A chi legge queste pagine viene affidato un messaggio, conta quello che rimane, per la persona e per la città. Ma si apre una domanda sul destino della Casa Liberti, oggi chiusa e che non vorremmo restasse tale, vanificando il senso del suo recupero e privando la città del godimento di questo bene ritrovato.
A giorni la presentazione del libro
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