Il rapporto tra una superpotenza capitalistica e un piccolo paese con grandi problemi (di qualsiasi tipo, dalla crisi economica alla guerra) è sempre un rapporto tra dominatore e suddito. Si può fare tra “adulti in una stanza” – come nell’eccellente film di Costa-Gravas sulla UE che brutalizzava la Grecia nel 2015 – oppure in mondovisione dalla Casa Bianca, come ha hanno fatto Trump e Vance con Zelenskij tre giorni fa.
Ma la sostanza non cambia. E quando il “suddito” non è immediatamente disponibile ad obbedire, o proprio non capisce quel che gli viene ordinato, allora arrivano immediatamente le conseguenze concrete, sotto mille forme, ma tutte molto “costrittive”.
Per un paese in guerra – e che si era esposto al pericolo di entrarci solo perché il proprio dominatore (gli Usa) avevano garantito assistenza, rifornimenti, finanziamenti, addestratori, copertura satellitare e al limite anche l’”ombrello nucleare” (si può promettere molto, anche se si intende mantenere molto meno) – non c’è argomento più convincente dello stop al flusso continuo di armi nuove che vanno a sostituire quelle che vanno distrutte in battaglia.
Trump, tre soli giorni dopo il match nella sala Ovale, ha calato subito l’argomento fine-di-mondo: una pausa per tutti gli aiuti militari statunitensi all’Ucraina.
La decisione – riporta il Washington Post – è stata presa durante una riunione alla Casa Bianca a cui hanno partecipato il vicepresidente J.D. Vance, il segretario di Stato Marco Rubio, il segretario alla Difesa Pete Hegseth, la direttrice dell’intelligence Tulsi Gabbard e l’inviato per il Medio Oriente ma in contatto anche con Mosca, Steve Witkoff.
Come ha riferito una “voce vicina” a The Donald, “Il presidente Trump è stato chiaro nel dire che è focalizzato sulla pace. Abbiamo bisogno che anche i nostri partner si impegnino per questo obiettivo. Stiamo mettendo in pausa e riesaminando i nostri aiuti per assicurarci che stiano contribuendo a una soluzione.“
Tradotto nel linguaggio degli “adulti” col bastone in mano: fin quando Zelenskij e la sua junta non torneranno qui, col cappello in una mano e una penna nell’altra, per firmare qualsiasi foglio che verrà loro messo sotto il naso, non un fucile a pallini dell’esercito Usa arriverà più a Kiev.
Una “pausa” non è uno stop definitivo, certamente, ma in una guerra ad alto consumo come quella in corso anche solo pochi giorni di “siccità” possono determinare un rapido calo delle riserve impiegabili e determinare, di conseguenza, una “maggiore disponibilità” ad accettare una “soluzione” sgradita.
Da parte americana – sempre stando alle indiscrezioni lasciate trapelare da “fonti che chiedono l’anonimato” (un modo come un altro di far capire i limiti entro cui si può ragionare) – si alternano il bastone e la carota.
Al fianco della “pausa” c’è ancora la possibile firma del contratto sullo sfruttamento statunitense delle terre rare ucraine (che fin dal primo momento sembrava un ricatto, ma col passare dei giorni è diventato quasi un “ti faccio un favore”).
Insomma, se accetti la soluzione che “noi adulti” ti proporremo – a occhi chiusi, senza nemmeno conoscerla prima – allora saremo così gentili da prenderci le tue terre rare come risarcimento per gli aiuti fin qui concessi.
L’unico punto a favore di Kiev, come provano a spiegare alcuni geologi, è che queste famose “terre rare”, in Ucraina, forse non ci sono neanche. Se ne parla, certo, ma nei database ufficiali che monitorano i giacimenti e le riserve potenziali, al momento, non ce n’è traccia.
Le stesse “voci”, al momento, pongono un problema più che alro di “forme diplomatiche accettabili”, che un po’ somigliano alle critiche per l’abbigliamento militaresco con cui l’attore di è presentato alla Casa Bianca: “C’è una finestra di opportunità con la Russia. Ma non si può portare Putin al tavolo se lo si insulta.”
Il problema è che l’attore non sembra in grado di uscire da personaggio che si è cucito addosso. Oppure che le pressioni dei suoi presunti sottoposti gli impediscono di cambiare copione rispetto agli ultimi tre anni.
Più esplicito il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Mike Waltz, durante un’apparizione su Fox News Channel: “Quello che vogliamo sentire dal presidente Zelenskyy è che si rammarica per quanto accaduto, che è pronto a firmare questo accordo sui minerali e che è disposto a impegnarsi nei colloqui di pace“.
Ma è il campo di battaglia, a questo punto, a dettare tempi e condizioni. Prima di lasciare la presidenza, Joe Biden aveva aumentato gli invii di armi a Kiev, proprio per ingrossare le riserve in vista di possibili problemi in caso di vittoria di Trump.
Ma una guerra richiede un flusso costante di rifornimenti e anche i più ottimistici sostenitori di Kiev calcolano che, al ritmo attuale di consumo, l’esercito ucraino potrà reggere al massimo fino all’estate. Tre o quattro mesi, insomma, e sempre che Mosca non intensifichi i bombardamenti e gli attacchi, o la loro precisione “mirata alle scorte”.
I tempi a disposizione di Kiev per prendere decisioni è ovviamente molto più breve, perché non si può neanche pensare di arrivare vicini al limite massimo; l’eventuale ripresa dei rifornimenti, infatti, non potrebbe essere immediata, da un giorno all’altro.
Inutile aggiungere che la “banda dei volenterosi” raccolta a Londra non potrà affatto sostituire gli Stati Uniti. Né sulle armi convenzionali (carri armati, artiglieria, munizioni, droni, ecc). Né – e forse soprattutto – nella copertura satellitare indispensabile per far funzionare batterie antimissile, gli Himars e altri missili a medio raggio.
E tanto meno potrà garantire rifornimenti copiosi, visto che del finanziamento del riarmo europeo si sta ancora discutendo (stamattina von der Leyen annuncia un piano da 800 miliardi di euro), e si sa che prima vanno trovati i soldi, poi si cominciano a disegnare e progettare armi, poi a costruirle, poi a inviarle…
Anni, se tutto va bene. Roba che servirà per un’altra guerra, forse. Non certo per questa.
Abbassate le armi che vi sono rimaste. E’ l’unica soluzione seria…
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