Vent’anni senza giustizia, Calipari coniugò sicurezza e tutela dei diritti




LUCA ZENNARO-ARCHIVIO

«Giustizia a Nicola non l’ha resa nessuno. Un processo vero non si è mai svolto. E noi dopo venti anni non abbiamo ancora verità e giustizia». È quello che ripete sempre Rosa Villecco Calipari, moglie di Nicola Calipari, capo dipartimento del Sismi, il servizio segreto militare, ucciso a Bagdad il 4 marzo 2005 dal “fuoco amico” di militari americani mentre stava portando in salvo, dopo una difficile trattativa, la giornalista del Manifesto, Giuliana Sgrena, sequestrata da un gruppo terrorista legato alla Jihad islamica. Erano ad appena 700 metri dall’aeroporto dove un aereo era pronto per portarli in Italia. Improvvisamente da un mezzo militare Usa partirono lunghe raffiche che colpirono l’auto con a bordo Calipari, Sgrena e un altro agente del Sismi. Calipari fece scudo alla giornalista e venne colpito mortalmente.

Il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi lo insignì della medaglia d’oro al valor militare alla memoria. «Nicola non era un eroe – sostiene la moglie che domenica è stata ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa” –. Le qualità dei nostri Servizi segreti sono la riservatezza e l’umanità. E lui era così, con l’equilibrio tra l’uomo che garantisce la sicurezza e la tutela dei diritti umani, la sacralità della vita. Una sensibilità che gli veniva anche dalla sua formazione scout. E non l’aveva persa neanche da poliziotto e poi da funzionario dei Servizi».

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Eppure per lui non c’è stata giustizia. Una commissione d’inchiesta mista italiana e americana non giunse a nessuna conclusione sulle responsabilità a causa delle resistenze Usa. La magistratura italiana ha indagato ma non c’è stato alcun processo perché la Cassazione ha ritenuto che l’Italia non ha giurisdizione in merito. E gli americani hanno rubricato il caso come “incidente”. Oggi e nei prossimi giorni, quel drammatico pezzo di storia viene ricordato in occasione del ventesimo anniversario. Questa mattina, come ogni anno, la commemorazione nella Questura di Roma. Domani il ricordo alla Camera ma senza la moglie che, pur parlamentare per tre legislature, non è stata avvisata, «non ne sapevo niente». Infine il 6 marzo all’Auditorium della musica di Roma la prima istituzionale, e contemporaneamente in molte sale, del film “Il Nibbio” diretto da Alessandro Tonda, con Claudio Santamaria nel ruolo di Calipari e Anna Ferzetti in quello della moglie Rosa, che ha collaborato alla sua realizzazione. «Ho seguito il film anche sul set – ci tiene a dire – e anche il titolo lo abbiamo scelto insieme. Il Nibbio è un rapace dell’Aspromonte, agile, veloce e leggero, per questo Nicola lo scelse come nome per la sua attività. Aveva fatto parte del gruppo scout “Aspromonte” di Reggio Calabria. Allora l’Aspromonte era pieno di latitanti ‘ndranghetisti, quando tutti negavano l’esistenza della ‘ndrangheta. Invece lui portava i ragazzi a fare il campo in Aspromonte per riprendersi il territorio». Nella vita di Calipari l’esperienza scout emerge sempre. «Quel suo metodo di cui tanto si parla, quella sua atipicità è data dal fatto che, prima in Polizia e poi nei Servizi, Nicola cercava sempre di tenere la leadership del team senza imposizione militaresca, come il “capo fila” degli scout. Usava un soft power. E questo lo aveva imparato proprio dal metodo scout». Come l’attenzione ai diritti di tutti, a cominciare dai più deboli. Così in Polizia fece istituire il numero verde per gli omosessuali vittime di violenze e un sistema di appuntamento per gli immigrati ai quali i suoi uomini dovevano dare del “lei”. E poi nei Servizi la capacità di trattare, di mediare, anche coi “cattivi”. Un metodo che gli aveva permesso di far liberare nel 2004 le operatrici umanitarie Simona Pari e Simona Torretta. Ma sempre senza apparire. C’è una famosa foto con le due Simone appena liberate in primo piano e poi sullo sfondo, lontano e sfocato, c’è lui, il capo che non si mette in mostra. Dopo essere stato in prima linea, conoscendo bene i rischi. Come quando in Polizia la ‘ndrangheta progettò di ucciderlo. «Non potevamo restare in Calabria, eravamo nel mirino». Così nel 1988 viene mandato con la famiglia in Australia ma non passa il tempo in spiaggia e anche lì scopre la presenza della ‘ndrangheta, con tanto di riti di affiliazione. Ma al ritorno in Italia la scelta, quasi obbligata (“Nicola non aveva solo amici…”), fu di passare al Sismi, ma sempre con lo stesso metodo. «Come mi disse Cossiga “suo marito era un investigatore non un muscolare” ed era davvero un poliziotto atipico. Vorrei tanto che invece fosse tipico questo modello di persona che coniuga sicurezza e tutela dei diritti umani. Per lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato, come recita il metodo scout. Io continuerò la mia battaglia per verità e giustizia».

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