Contro la geologia | Il vino non è (solo) poesia della terra


Il vino non è solo un prodotto della terra ma un’espressione dinamica dello spazio e del tempo. È la somma di interazioni tra suolo, clima, cultura e tecniche produttive, un oggetto geografico in continuo mutamento. Un’unità geografica, quindi, in cui si intrecciano variabili fisiche e umane, un’espressione complessa del rapporto tra ambiente e cultura.

Eppure, nel corso del Novecento, la narrazione enologica ha subito una torsione progressiva: il vino, nel secolo breve, è stato sempre più ridotto alla sua geologia, alla stratigrafia di un sottosuolo pensato come fondamento assoluto della qualità e dell’identità territoriale. Il racconto del vino ha iniziato a smettere di essere una storia di interazioni dinamiche per trasformarsi sempre più in una lettura deterministica dello spazio, immobile e irreversibile. Prima del XX secolo, la descrizione del vino era soprattutto una questione atmosferica: si parlava di colori, profumi, maturazioni stagionali, della mano dell’uomo e del tempo che plasma la vite. Il suolo era parte del sistema, non il suo perno esclusivo.

Questa ipersemplificazione del vino come emanazione diretta del suolo ha permesso di costruire un dispositivo narrativo potente, capace di generare valore commerciale e simbolico, ma al prezzo di una perdita di complessità. La relazione tra vino e terroir si è ridotta a un’equazione geologica, trascurando il fatto che la qualità del vino è una sintesi molto più articolata di variabili climatiche, ambientali e antropiche. La geologia è diventata un mantra, un elemento inamovibile del racconto, utile a giustificare la gerarchia dei territori e a cristallizzare il valore di determinati cru, ma non sufficientemente  esaustiva per spiegare la natura dinamica e complessa del vino.

Le mappe dei territori vinicoli, elaborate nel corso delle ultime decadi, riflettono questa ossessione per la geologia: si tratta di rappresentazioni cartografiche che tendono a ridurre la complessità del terroir a un puro esercizio di stratigrafia, ignorando la dimensione atmosferica e antropica della viticoltura. Invece di cogliere la viticoltura come fenomeno geografico in evoluzione, molte di queste mappe si limitano a classificare il territorio secondo le caratteristiche litologiche, dimenticando che il vino è soprattutto frutto di una relazione spaziale, non di un sostrato minerale statico.

Non possiamo, e soprattutto, non dobbiamo raccontare il vino come un’emanazione della pietra, ma una funzione del tempo e del clima, un prodotto della trasformazione dello spazio e della gestione umana del paesaggio.

Per secoli, il racconto del vino è rimasto svincolato dalla geologia. Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III Farnese, classificava i vini in base al loro equilibrio sensoriale e alla loro capacità di piacere al pontefice, senza mai invocare il sottosuolo. Andrea Bacci, nel suo De naturali vinorum historia (1596), analizzava il vino secondo la sua struttura, i suoi profumi e i suoi metodi di vinificazione, attribuendone la qualità al clima e alle pratiche umane. Nessuno di questi autori percepiva la geologia come un fattore fondante della tipicità. Per non parlare degli autori classici.

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Poi arriva la Francia. E con essa, la grande invenzione. A partire dal XX secolo, Borgogna e Bordeaux impongono una nuova narrazione: il terroir come espressione diretta della geologia. Il vino non è più una costruzione spazio-temporale, ma un’estensione della roccia. Non si produce più in un luogo, ma da un suolo. Una mossa brillante, un dispositivo teorico che trasforma la terra in marchio di qualità e che cristallizza il paesaggio in un’icona inamovibile. Da quel momento, la zonazione viticola diventa una questione geologica, le denominazioni d’origine si fondano su stratificazioni minerali, il suolo si trasforma in una retorica cartografica di autenticità.

Ma c’è un problema. Che salta agli occhi oggi e che ci aiuta a mettere le cose meglio a fuoco. Quando parliamo di climate change e di transizioni climatiche della viticoltura, la geologia, di colpo, scompare. Ci siamo mai chiesti il perché?

Il cambiamento climatico non è un fattore stabile: è un’alterazione costante delle condizioni atmosferiche, una ristrutturazione del regime delle precipitazioni, delle temperature, dell’umidità, dell’insolazione. Tutti elementi che modellano il vino molto più delle rocce. Eppure, nel discorso enologico contemporaneo, il clima è evocato solo come una minaccia: “il caldo uccide l’acidità”, “il freddo blocca la maturazione”, “la pioggia annacqua il vino”. La geologia, invece, rimane un feticcio, l’ultimo residuo di una visione statica del paesaggio.

Tuttavia, è innegabile che la scienza abbia dimostrato innumerevoli volte la correlazione tra suolo e caratteristiche del vino. Studi sulla mineralità percepita, sulla disponibilità di nutrienti e sul bilanciamento idrico della vite hanno costruito una letteratura scientifica solida e autorevole. Non si tratta di negare l’importanza del suolo, quindi, ma di riconoscere che il vino è più della sua matrice geologica. Se vogliamo davvero comprendere il suo carattere, dobbiamo raccontarlo in termini geografici: non come una reliquia minerale, ma come una relazione tra ambiente, clima e cultura umana.

Il geografo Paul Vidal de la Blache, padre del possibilismo geografico, ci ha insegnato che lo spazio non è una determinazione rigida, ma un campo di possibilità in cui l’uomo interviene e plasma l’ambiente. Se vogliamo comprendere la viticoltura del futuro, dobbiamo smettere di concepire il terroir come una struttura geologica fissa e iniziare a leggerlo come un sistema di relazioni, anche climatiche, in continuo mutamento.

[Evoluzione della geografia. Fonte: Algor Cards]

Il vino non è suolo. Il vino è spazio e anche tempo. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, noto bevitore e pensatore del divenire storico, avrebbe potuto apprezzare questa riflessione: il vino, come il Geist, non è una struttura immobile, ma un processo, un flusso in continua evoluzione. Il vino non è la terra da cui proviene, ma il clima che lo attraversa e l’uomo che lo plasma.

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Abbiamo creduto nella pietra, e ha funzionato. Ora dobbiamo credere nell’aria. Il futuro del vino non è sottoterra, è nell’atmosfera. Edward de Bono, padre del pensiero laterale, diceva che le idee migliori nascono dal mettere in discussione ciò che diamo per scontato. Ecco, diamo per scontata la geologia. Scardiniamo l’assioma, problematizziamo. Il vino non è la terra, è il movimento, l’adattamento. Il vino altro non è, cioè, che il frutto della relazione tra uomo e pianta che si innesta lungo le direttrici di spazio e tempo.

[Cover: Joan Miró (1893-1983), La bottiglia di vino, 1924, Fondacion Joan Mirò, Barcellona]








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