Solo gli storici potranno pienamente valutare quanto il discorso che J.D. Vance ha pronunciato a Monaco il 14 febbraio di quest’anno abbia influito sul risultato delle elezioni per il 21° Bundestag della Repubblica federale e più in generale sulla politica tedesca. La sensazione, a ridosso degli avvenimenti, è che l’impatto sia stato notevole. Gli eventi offrono le premesse di una svolta, in fondo non dissimile da quella del 1949 o del 1989. Riuscirà la Germania a cogliere le opportunità del momento?
L’attacco di Vance prima delle elezioni
Dinanzi a una platea di ministri, studiosi e diplomatici riuniti durante l’annuale Conferenza sulla sicurezza nella città bavarese, il vicepresidente statunitense ha sferrato uno straordinario attacco contro l’establishmenttedesco. In buona sostanza, ha accusato gli organizzatori di aver boicottato la presenza di Alternative für Deutschland (AfD), il partito di estrema destra: “Credo profondamente che non ci sia sicurezza se si ha paura delle voci, delle opinioni e della coscienza che guidano il proprio popolo”.
Più in generale, l’uomo politico ha accusato l’Europa di violare i principi stessi della libertà di espressione, ricordando la scelta controversa in Romania di annullare le elezioni presidenziali alla fine del 2024. Chi era presente racconta che il ministro della difesa Boris Pistorius si sia precipitato in un salone del Bayerischer Hof di Monaco per correggere in tutta fretta il suo discorso di risposta e prendere apertamente le distanze dal vicepresidente americano. Commentava la Frankfurter Allgemeine Zeitung l’indomani: “Una tale ingerenza nella vita politica tedesca da parte degli Stati Uniti è senza precedenti dai tempi della denazificazione dopo la guerra”. Per giorni l’opinione pubblica è rimasta attonita, incredula dinanzi a un tale attacco proveniente dal fedele alleato americano. Ne è trascorso di tempo da quando Goethe affermava: “Amerika, du hast es besser” (America, sei la migliore).
Si apre la fase Merz
Il voto del 23 febbraio consentirà con ogni probabilità al leader democristiano Friedrich Merz di diventare il nuovo cancelliere tedesco, possibilmente in un’alleanza con il partito socialdemocratico. In un’ottica europea, le prime dichiarazioni sono incoraggianti. Merz vuole rafforzare la difesa europea e rivedere drasticamente il rapporto con Washington, girando le spalle allo storico Westbindung. Più precisamente, l’uomo politico vuole che la Germania “assuma la propria indipendenza” rispetto agli Stati Uniti. Nel contempo, ha spiegato che ai suoi occhi l’attuale governo americano è “in gran parte indifferente al destino dell’Europa”.
Sul fronte economico, lo stesso Merz ha aperto la porta a nuovo debito pubblico per rilanciare gli investimenti. Inoltre, “il nostro modello economico non esiste più […] Dobbiamo fare molto per ridurre l’eccesso di burocrazia”. Vuole anche ridurre i benefici previdenziali: “Non vogliamo pagare la gente che non vuole lavorare”. Sulla clausola di freno al debito, inserita in Costituzione, si è detto “disposto a discuterne”.
Anche i risultati elettorali a prima vista sono positivi. I partiti centristi – ossia i democristiani, i socialdemocratici, i verdi e i liberali (FDP) – hanno ottenuto insieme il 60,8% dei voti. I movimenti più radicali hanno raccolto il 34,5% dei suffragi. Più importante è il ruolo che ha giocato la soglia di sbarramento, oltre la quale non sono andati né l’FDP né il movimento della sinistra radicale BSW. Se avessero superato il limite del 5%, i due partiti avrebbero complicato non poco il gioco delle coalizioni.
Al tempo stesso, i risultati confermano una drammatica frammentazione del quadro politico e un ulteriore indebolimento dei due tradizionali partiti popolari. A ben guardare, la vittoriosa CDU/CSU ha registrato il peggior risultato dalla fine della Seconda guerra mondiale, se si esclude il voto del 2021 (quando il partito ottenne il 24,1% dei suffragi). Dal canto suo, l’SPD ha subito la più grave sconfitta dal 1887. Insieme i due partiti hanno ottenuto appena 328 seggi su 630, ossia una maggioranza di appena 12 deputati. Poco in un contesto nel quale entrambi i partiti devono fare i conti con fronde interne. C’è di più: i due partiti più radicali – a destra e a sinistra –, ossia l’AfD e Die Linke, hanno oltre un quarto dei seggi e quindi una maggioranza di blocco per eventualmente contrastare modifiche della Costituzione.
Più in generale, le elezioni hanno mostrato un’incredibile spaccatura del Paese. L’AfD appare molto forte a Est, mentre la CDU/CSU ha guadagnato i propri consensi soprattutto a Ovest. Ancor più significativo è il successo dei partiti più radicali tra i più giovani. L’AfD ha attirato il maggior numero dei giovani uomini tra i 18 e i 24 anni, vale a dire il 27% del totale. Die Linke è stata votata dal maggior numero di giovani donne tra i 18 e i 24 anni, ossia il 35% del totale.
Ma osserviamo ancor più da vicino l’andamento dell’AfD. Il partito di Alice Weidel ha ottenuto il 20,8% dei suffragi, rispetto al 10,4% del 2021 e al 15,9% alle elezioni europee dell’anno scorso. Un ritmo di crescita confermato anche da una particolarità del sistema elettorale tedesco. Ogni elettore ha due voti, indipendenti l’uno dall’altro. Con il primo si esprime sui candidati in un collegio uninominale. Il sistema è quindi maggioritario. Con la seconda scheda vota per un partito, questa volta alla proporzionale. Ebbene, l’AfD ha ottenuto il 20,8% dei secondi voti, il doppio rispetto al 2021. Anche la CDU/CSU ha registrato un aumento dei secondi voti (dal 24,1% al 28,5%), a differenza dei socialdemocratici, dei verdi e dei liberali (che hanno registrato un calo).
Insomma, la scena politica è a dir poco scombussolata. Il nuovo governo, tendenzialmente di grande coalizione, sarà probabilmente l’ultima occasione per prevenire l’arrivo al potere dell’AfD. Come detto, le prime prese di posizione del futuro cancelliere sembrano sancire una svolta in Germania, su due fronti altrettanto cruciali: la politica economica e la politica estera. Entrambi lasciano ben sperare sul futuro dell’integrazione europea.
Berlino al bivio: i dossier più scottanti
Il momento per Friedrich Merz non è dissimile da quello vissuto da Konrad Adenauer nel 1949 o da Helmut Kohl nel 1989. Dopo la guerra Adenauer scelse chiaramente il campo occidentale, optando per l’ingresso della Germania Ovest nella Comunità economica del carbone e dell’acciaio (CECA), poi nell’Alleanza atlantica e infine nella Comunità economica europea (CEE). Nel 1963 firmò con la Francia uno storico trattato di amicizia. Dopo la caduta del Muro di Berlino Kohl optò per l’unificazione delle due Germanie e soprattutto dette il suo benestare alla nascita dell’Unione economica e monetaria, abbandonando il marco per abbracciare l’euro.
Ciò detto, il realismo resta d’obbligo. Il progetto politico tratteggiato dal prossimo cancelliere dovrà fare i conti prima di tutto con le sue stesse sensibilità. C’è una evidente presa di coscienza delle urgenti necessità della Repubblica federale, in termini di difesa e di economia. Ma l’uomo rimane figlio del suo retaggio politico e nazionale. La parola Schuld non ha cambiato significato in tedesco: indica sempre debito e colpa. Per certi versi l’uomo politico sarà chiamato a forzare la mano, sua e quella dei suoi connazionali.
Più concretamente, la probabile coalizione di governo si avventurerà su un terreno inevitabilmente scivoloso. Tre temi rischiano di essere controversi. Il primo è quello della revisione della clausola del debito. Bisognerà capire se e come verrà rivista e soprattutto come verrà messa in pratica, in altre parole quali saranno i reali margini di manovra del governo, tenuto conto del controllo occhiuto della Corte costituzionale di Karlsruhe.
Un’altra questione complessa è quella relativa all’immigrazione. Le differenze tra democristiani e socialdemocratici sono emerse evidenti in questi mesi, soprattutto quando alla fine di gennaio la CDU/CSU votò insieme all’AfD una risoluzione a favore di un inasprimento delle regole sul fronte migratorio. Allora il cancelliere Olaf Scholz (SPD) parlò di “errore imperdonabile”. Il nodo rischia di provocare nuove tensioni, tanto più che Merz dovrà tenere a bada la destra del suo partito, vicina su questi temi ai proclami di Weidel.
Infine, c’è la questione del ritorno all’energia nucleare, che agli occhi dei democristiani è indispensabile per sostituire il gas russo e rilanciare l’industria nazionale, evitando delocalizzazioni e disoccupazione. Al di là dei tempi necessari per riorientare la politica energetica tedesca, le visioni divergenti con i socialdemocratici saltano agli occhi. Fu il cancelliere Gerhard Schröder ad accettare all’inizio del secolo, su pressione degli alleati verdi, la chiusura progressiva degli impianti nucleari. Oggi la visione ambientalista è stata fatta propria da molti esponenti socialdemocratici.
Più in generale, è una rivoluzione psicologica quello che la Germania è chiamata a compiere, abbandonando d’emblée le certezze degli ultimi 80 anni, rivedendo non solo il rapporto con Washington ma anche quello con Bruxelles, e quindi accettando un ulteriore grado di federalismo e di solidarietà, ormai impellente. D’altro canto, Merz non ha forse chiesto a Parigi e a Londra di godere del loro ombrello nucleare, sulla scia del discorso di Vance a Monaco che ha avuto l’innegabile merito di aprire gli occhi anche ai più ingenui?
Quando Charles de Gaulle visitò Stalingrado nell’inverno 1944-1945, la città era stata teatro di una storica sconfitta della Wehrmacht, ma era anche stata la punta massima dell’avanzata nazista nella grande pianura russa. Tra le rovine dell’attuale Volgograd si dice che mormorò: “Quel peuple!”. Non si riferiva ai russi, ma ai tedeschi; e la sentenza lapidaria voleva sottolineare quanto il Paese sia capace di dare il peggio, ma anche il meglio. Il giudizio rimane attuale.
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