Il compenso per la prestazione professionale


La vicenda trae origine dalla domanda avanzata dall’Avvocato inerente il compenso per la prestazione professionale prestata.

Il Tribunale di Milano rigetta la domanda attorea, condannando il professionista alla rifusione delle spese di lite.

Per quanto di interesse, il primo grado ha ritenuto che il compenso per la prestazione professionale dovesse essere determinato ex art. 2233 c.c. in base alle tariffe di cui al D.M. n. 140/2012, data l’assenza di un precedente accordo sul punto, e che l’attività stragiudiziale potesse essere liquidata, in via analogica, secondo i parametri fissati per la fase di studio dell’attività giudiziale. Per tali ragioni, è stato considerato equo il compenso di 3.867,18 euro, già versato dalla convenuta quale corrispettivo per l’attività stragiudiziale, e satisfattivo quello corrisposto per il procedimento di ingiunzione, rigettando di conseguenza la domanda attorea.

La Corte d’Appello di Milano (sentenza n. 2860/2019) respinge il gravame e ribadisce che il rilievo dell’erroneità del rito non può avvenire oltre la prima udienza in virtù del principio di conservazione degli atti giudiziari, non essendo stato negato alcun diritto sostanziale di difesa delle parti. Sottolinea la corretta utilizzazione del primo Giudice dello scaglione di valore indeterminato, data la mancanza di prova da parte dell’appellante dell’effettivo valore della causa. Inoltre, ha condannato l’Avvocato al risarcimento dei danni per lite temeraria ex art. 96, co. 3, c.p.c. per aver reiterato in appello la richiesta di pagamento di una somma di denaro, senza alcuna specificazione del calcolo del compenso e senza tener conto delle tabelle ministeriali applicabili.

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Il rigetto della Corte di Cassazione

Il Tribunale ha deciso la controversia secondo le forme del rito ordinario di cognizione, avendo lo stesso ricorrente adottato la forma dell’atto di citazione per l’introduzione del giudizio, e non essendo intervenuta alcuna ordinanza di mutamento del rito entro la barriera dell’art. 4 del D.Lgs. n. 150/2011. Correttamente anche la decisione è stata assunta secondo le forme e con le regole dettate per il processo ordinario.

Incensurabile è poi la scelta del Tribunale di definire la controversia avvalendosi della previsione di cui all’art. 281 sexies c.p.c., la cui violazione deriverebbe, sempre secondo il ricorrente, in ragione della attribuzione della decisione al Collegio e non al giudice monocratico.

Questo giustifica, senza dubbio, il consolidamento del rito e la incensurabilità della decisione del Tribunale quanto alle forme procedimentali seguite, non potendosi invocare alcuna nullità tale da determinare la rimessione della causa al giudice di primo grado.

Venendo, ora, all’oggetto del presente commento, il professionista ritiene insussistenti i presupposti richiesti dalla norma per l’applicazione della sanzione di cui all’art. 96 cpc, III comma, per l’abuso dello strumento processuale e per la condanna per responsabilità processuale aggravata.

Il compenso per la prestazione professionale e l’ex art. 96, comma 3 c.p.c.

Ebbene, il fondamento costituzionale della responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., risiede nell’art. 111 Cost. che sancisce il principio del giusto processo regolato dalla legge e quello della sua ragionevole durata,  ha come presupposto la mala fede o colpa grave, da intendersi quale espressione di scopi o intendimenti abusivi, ossia strumentali o comunque eccedenti la normale funzione del processo, i quali non necessariamente devono emergere dal testo degli atti della parte soccombente, ma possono desumersi anche da elementi extratestuali concernenti il più ampio contesto nel quale l’iniziativa processuale si è svolta.

La Cassazione sottolinea che la responsabilità in parola può configurarsi anche nell’abuso del diritto di impugnare, e ciò perché in tema di responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., costituisce indice di mala fede o colpa grave – e, quindi, di abuso del diritto di impugnazione – la proposizione di un ricorso per cassazione con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione, non svolgendo attività interpretativa, deduttiva e argomentativa per mettere in discussione, il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla fattispecie concreta).

In appello, la parte incorre in colpa grave, quando insiste colpevolmente in tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo Giudice, ovvero in censure della sentenza impugnata la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata dall’appellante in modo da evitare il gravame.

Per tali ragioni, i Giudici di appello hanno ritenuto esserci la responsabilità ex art. 96, co. 3, c.p.c., perché l’Avvocato aveva, già in primo grado, agito per il pagamento di una somma, omettendo di specificare i criteri di calcolo ai quali si era attenuto, e trascurando quanto invece era dato ricavare dall’applicazione delle tabelle, insistendo in appello per l’accoglimento della propria pretesa in maniera sostanzialmente ingiustificata.

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La motivazione è logica e coerente (Corte di Cassazione, II civile, sentenza 26 febbraio 2025, n. 4986).

Avv. Emanuela Foligno

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