Cinque settimane dopo il ritorno di Trump alla Casa Bianca non ha più senso fermarsi a commentare le sceneggiate del trumpismo. Il dito alzato, le frasi grossolane, le proposte iperboliche e provocatrici tipo Gaza. Ciò che conta è prendere nota della sostanza del profondo mutamento di rotta intrapreso da Washington. Mutamento rispetto al quale ogni velleità di fare i “pontieri” appare ridicola. Pensare ad una comune strategia transatlantica è illusorio, riconosce la politologa Nathalie Tocci. È un “cambio d’epoca” come direbbe papa Bergoglio.
Donald Trump è cresciuto politicamente nella stagione della crisi dell’unilateralismo statunitense, illusosi di plasmare il mondo globalizzato attraverso il dominio del paradigma neoliberista. Quell’unilateralismo che ha portato gli Stati Uniti a ubriacature di onnipotenza manifestatesi nel bombardamento di Belgrado, nell’occupazione dell’Afghanistan per costruirvi un regime occidentale e nell’invasione dell’Iraq.
Vista l’impossibilità di esercitare l’unilateralismo e il vicolo cieco in cui gli Stati Uniti si sono trovati con la guerra di attrito in Ucraina – impossibile da vincere senza arrivare al conflitto missilistico nucleare con la Russia – il presidente statunitense prospetta una partita radicalmente nuova. In cui non contano le istituzioni multilaterali politiche (Nazioni Unite), giuridiche (Corte Penale Internazionale) e nemmeno sanitarie (Organizzazione Mondiale della Sanità) ma solo le Grandi Potenze, impersonate da leader capaci di agitare il “grosso bastone” (copyright del presidente Theodore Roosevelt, alfiere del nazionalismo americano ai primi del Novecento). L’improvvisa sospensione degli aiuti all’Ucraina, decisa da Trump, ne è una dimostrazione clamorosa.
E’ questo il nuovo tavolo da gioco di Donald Trump. Un tavolo su cui trattare, scontrarsi, fare accordi con i protagonisti mondiali che hanno potere: Russia, Cina, petromonarchie arabe, Israele, India.
E’ un’evoluzione che in Vaticano si segue con grande attenzione. La lettera di Francesco ai vescovi americani – sul tema dei migranti e la salvaguardia della dignità umana – è solo un primo passo (sempre che il pontefice riesca a continuare la sua missione). Eguale attenzione viene riservata Oltretevere all’arrivo diretto nelle stanze del potere degli oligarchi dell’economia e dei tecno-padroni, insofferenti a ogni controllo e fondamentalmente ostili alla regolamentazione che l’Unione europea inizia ad imporre ai sistemi digitali e di intelligenza artificiale. Tutto questo, notava un cardinale di Curia nell’avvento del secondo mandato trumpiano, pone un problema di democrazia ed esige una seria riflessione.
L’Europa in questo grande gioco si trova come un pugile impreparato a muoversi su un ring di cui non conosce le nuove regole. All’obiettivo preciso di chiudere il conflitto in Ucraina, Bruxelles e i paesi Nato hanno finora reagito con dichiarazioni altisonanti ma in realtà in una maniera che non dimostra una logica politica coerente. Sono state varate nuove sanzioni alla Russia mentre gli Stati Uniti si preparano ad alleggerirle, si sanziona Mosca e al tempo stesso si pensa di chiedere un temporaneo cessate il fuoco. Si fa passare all’Onu una risoluzione che condanna l’aggressione russa, fingendo di non vedere che tra contrari e astenuti una vasta maggioranza del pianeta non è d’accordo con una sterile riproposizione di accuse. Poi, in Consiglio di sicurezza, viene approvata la linea di Washington per una rapida soluzione del conflitto (senza condanne) e Francia e Gran Bretagna non hanno il coraggio di porre il veto.
Il nodo di fondo è che i paesi europei in questi anni non hanno mai voluto chiedersi se la guerra poteva essere evitata dall’inizio e non hanno mai avanzato una proposta per porre fine al conflitto, abbandonandosi alla retorica della “vittoria” e delegando tutto al cosiddetto piano Zelensky che era semplicemente un diktat da imporre alla Russia. Oggi l’Ue avverte giustamente che l’obiettivo deve essere un’autonomia strategica dell’Europa e una sua capacità di deterrenza. Ma costruire un esercito e un’industria degli armamenti integrati esige una politica. E soprattutto una precisa visione politica internazionale. Che Ursula von der Leyen annunci l’avvento di una “era di riarmo” senza indicare un orizzonte che vada al di là della questione ucraina dimostra irresponsabilità geopolitica.
Dal Vaticano vengono segnali precisi. All’indomani dello scontro tra Trump e Zelensky l’Osservatore Romano ha titolato: “Dare una possibilità alla pace”, evidenziando le parole del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin sulla necessità di coinvolgere tutte le parti in causa. E sapendo che tutti devono ottenere qualcosa, perché “in un compromesso nessuno può avere tutto e tutti devono essere disposti a negoziare qualcosa”.
Dal suo letto in ospedale, in un messaggio all’Accademia della Vita, papa Francesco rimarca in queste ore la necessità di rilanciare il multilateralismo. “Davanti a una crisi complessa e planetaria, siamo sollecitati a valorizzare gli strumenti che abbiano una portata globale”. Di fronte al progetto trumpiano di regolare la politica internazionale nel gioco ristretto di un gruppetto di Grandi, il Vaticano rimane fermo all’idea di un accordo globale per la convivenza nel XXI secolo costruito con tutti i principali protagonisti della scena mondiale, vecchi e nuovi. In una conferenza Helsinki 2.
Servono – scrive il papa, malato ma assai lucido – organizzazioni mondiali più efficaci, “dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale”. Più che mai si rivela chiaroveggente l’analisi di Bergoglio, che invitava a non leggere la guerra in Ucraina con gli occhiali della favola di Cappuccetto rosso.
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