Quando si indaga sulle responsabilità della finanza nella crisi climatica, spesso si accendono i riflettori sulle banche private. Oppure sulle banche bilaterali e multilaterali di sviluppo, a partire dalla Banca Mondiale. Più di rado si presta attenzione alle agenzie di credito all’esportazione, che pure muovono volumi di denaro comparabili. Uno studio pubblicato su Nature Communications colma questo vuoto. Svelando come questi soggetti con una mano sostengano la transizione ecologica e con l’altra continuino a finanziare i combustibili fossili.
Cosa sono e come funzionano le agenzie di credito all’export?
Le agenzie di credito all’esportazione sono istituzioni finanziarie pubbliche che sostengono le imprese nazionali nei mercati esteri. In sostanza, fungono da “assicurazione” per gli esportatori e per le banche che finanziano le operazioni commerciali internazionali. A tale scopo offrono garanzie statali, prestiti o assicurazioni per proteggere le aziende dall’eventualità di mancati pagamenti o difficoltà economiche, soprattutto in contesti ritenuti delicati. In alcuni Paesi, soprattutto extra-europei, erogano anche prestiti diretti per finanziare operazioni internazionali. In Italia la principale agenzia di credito all’esportazione è SACE, controllata dal ministero dell’Economia e delle finanze.
Questi soggetti esistono da oltre un secolo, durante il quale hanno avuto un ruolo chiave nell’internazionalizzazione delle imprese. Spesso, però, questo ruolo ha coinciso col finanziamento di enormi progetti legati all’estrazione e allo sfruttamento dei combustibili fossili. Con conseguenze devastanti per il clima. Negli ultimi anni ci sono stati dei tentativi di correggere queste storture. Nel 2021 per esempio è stato raggiunto un accordo in sede Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) per lo stop ai finanziamenti per le nuove centrali a carbone prive di sistemi di cattura e stoccaggio della CO2. Con la Dichiarazione di Glasgow siglata alla Cop26, poi, 39 governi e istituzioni hanno preso l’impegno di interrompere il sostegno ai combustibili fossili all’estero a partire dall’anno successivo.
Le agenzie di credito finanziano più fossili o rinnovabili?
Ma le agenzie di credito all’esportazione stanno davvero contribuendo alla transizione ecologica? Per rispondere a questa domanda, i ricercatori hanno preso in esame 921 transazioni legate all’energia a cui, nell’arco di un decennio, 31 di questi soggetti hanno partecipato nelle vesti di garanti o finanziatori diretti. Tra prestiti e garanzie (che sono la maggioranza), le cifre vanno dai 22 ai 43 miliardi di dollari all’anno.
Il trend è indiscutibilmente positivo: se nel 2013 gli impegni per le energie rinnovabili non raggiungevano il 10% del totale, tra il 2022 e il 2023 la percentuale si è attestata attorno al 40%. Soprattutto grazie ai grandi progetti di eolico offshore e idrogeno verde. Spiccano in particolare gli Stati europei membri di Export for finance future (E3F), una coalizione che riconosce il ruolo del sostegno pubblico alle esportazioni nel raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Se però le agenzie di credito all’esportazione danesi ormai sostengono esclusivamente fonti pulite e smart grid, quelle italiane sembrano avere assunto questo impegno soltanto a parole, visto che le fonti fossili rappresentano ancora la maggioranza dei loro portafogli.
In generale, si può dire che finora ci sia stato uno spostamento verso le fonti pulite. Ma non un addio alle fossili. Oltretutto, come sottolinea anche la testata francese Novethic, le agenzie europee di credito all’esportazione tendono a supportare i progetti rinnovabili soprattutto in Europa. Una delle poche eccezioni di rilievo è l’Angola, sede di due grandi impianti idroelettrici e due parchi fotovoltaici realizzati anche grazie ai Paesi europei. Ma per il resto, se si guarda al dato globale sul sostegno alle rinnovabili, nel 2022-2023 la quota destinata ai Paesi a basso reddito non arriva al 30%. Contro il 47% di dieci anni prima.
Niente da fare per l’intesa in sede Ocse
Proprio l’Unione europea, insieme a Regno Unito e Canada, nel 2023 aveva proposto in sede Ocse di imporre un limite ai finanziamenti alle fonti fossili da parte delle agenzie di credito all’esportazione. Ma i negoziati sono rimasti fermi per mesi. A bloccarli è stata soprattutto la Export-Import Bank statunitense, il cui statuto vieta di negare a priori il sostegno a specifici settori.
Per superare l’impasse, gli Stati Uniti hanno proposto di fissare un criterio basato sulle emissioni del progetto finanziato e non più sulla tecnologia usata. Ma Corea del Sud e Turchia si sono messe di traverso, i negoziatori si sono incartati sulle metodologie di calcolo e, nel frattempo, Donald Trump ha stravinto le elezioni presidenziali. Ponendo fine a qualsiasi prospettiva di collaborazione da parte delle istituzioni americane.
A gennaio, mentre il tycoon si preparava alla cerimonia di insediamento alla Casa Bianca, la Export-Import Bank ha siglato un accordo da mezzo miliardo di dollari per un’infrastruttura volta – si legge nel comunicato stampa – a «trasformare l’economia della Guyana». Si tratta di una grande centrale a gas naturale. Tra le aziende coinvolte, anche il colosso petrolifero americano ExxonMobil.
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