Luigi Trucillo: Antigone e la giustizia della metamorfosi


di Enza Silvestrini

 

Ci sono figure che appartengono alla storia del mondo, archetipi della coscienza collettiva in grado di orientare il nostro pensiero nel rapporto con la realtà, di descrivere il senso del nostro stare al mondo. Sono figure mitiche che dal passato sussurrano una verità che il presente, nel suo ostentato fragore, percepisce appena. Così è Antigone che dalle pagine della tragedia di Sofocle, attraversando secoli di riprese e riscritture, approda nei versi del poemetto di Luigi Trucillo Antigone nella città dei pazzi, edito da Cronopio.

Nonostante resti fedele alla simbologia che sostanzia la tragedia antica, Trucillo reinventa il mito originando un altro modello, un nuovo inizio.

Generalmente interpretata come la custode della legge morale contro uno Stato che calpesta la pietas verso i morti, Antigone sceglie di combattere una lotta titanica contro un re despota che separa legge e diritto impedendole di seppellire il cadavere del fratello.

Nel poemetto di Trucillo, Antigone è forse ancora più sola. Sorretta dall’integrità del suo passato e del suo dolore, richiamata da un nuovo tonfo della giustizia, Antigone si presenta al lettore nella forma di una piccola lucciola, vagante a mezz’aria mentre le sue palpebre / a poco a poco accendono un paesaggio.

La luce è un elemento cardine nel testo: illuminare per guardare il reale nella sua evidenza; illuminare per conoscere. Così insegna la sapienza antica che fa della luce la metafora fondamentale della verità. Ma non è solo la conoscenza intellettiva che interessa al poeta, quanto la saggezza del cuore che può comprendere e assecondare la sorte in un ritmo più umano, alieno dalla spietatezza. E infatti ogni cuore che batte è una luce, / ma non tutti lo accettano.

In un tempo come il nostro, dominato da un eccesso di illuminazione e di visibilità, è singolare notare come sia una piccola luce, dalla sua prospettiva ritirata, a illuminare davvero. È una luce che viene dalle ombre, che da sempre condivide lo spazio con le tenebre. Proprio per questo, ha imparato a guardare il buio della notte e della mente.

Di fronte alla profondità della lucciola, appare persino risibile la luce, tanto più potente, della torcia impugnata dal guardiano. Abbagliando senza illuminare, essa riassume la tracotanza del più forte, ma soprattutto l’inquietudine dell’uomo di fronte allo spettro dell’anarchia. Ripetitivo e claudicante, il guardiano si trascina nella sua arrugginita certezza: anche tra le macerie non bisogna mai abbandonare la salda presa del controllo / per un delirio del cuore. Occorre preservare l’ordine contro la follia, contro il caos che si insinua come polvere nella storia, contro ogni devianza sovvertitrice. All’orrore, che squarcia il sistema e la terra sotto i suoi piedi, il guardiano non sa trovare altro argine della acritica obbedienza alla norma, qualunque essa sia. Il guardiano è una voce nemica e necessaria, ultimo baluardo della legge di Creonte, il suo esecutore, un tramite come acutamente nota Antonello D’Elia nella sua postfazione dove evidenzia soprattutto il carattere dialettico della tragedia. Antigone potrebbe essere il doppio di Creonte, il suo limite, il dubbio lacerante dell’incertezza che si incunea nella tenacia del potere, nella fermezza dell’azione.

A dialogare con Antigone, c’è un coro dei 4 senza 4. I quattro elementi che gli antichi immaginarono come i principi generatori e conservatori del tutto, sono qui come un esodo / che si dirige fuori scena. Aria, acqua, terra e fuoco che furono l’anima, la pupilla, l’utero e il crogiolo di Zeus sono ormai ridotti a liquami e gas inquinanti, a qualcosa che comprime la vita avvelenandola. Tutto è un’eco di ciò che è stato. Anche i luoghi. Porsi in ascolto di questa eco è un esercizio di attenzione della mente e del cuore, capace di sentire le voci degli scomparsi. È risalire all’indietro il flusso del tempo e delle vite trascorse, per dare corpo alla memoria di coloro che la storia ha reso invisibili e anonimi murandoli vivi dentro sé stessi.

Richiamata in un luogo che fu la città dei pazzi, negli anfratti desolati del manicomio (l’Istituto “Leonardo Bianchi” di Napoli) con il suo carico di storie e frantumi, Antigone si aggira tra quelle che furono le stanze, nel solco di un dolore antico.

Il Bianchi è un non luogo, una particella espulsa dalla città come qualcosa di indesiderabile, che è preferibile non guardare. È una cellula di follia e contenzione, di torture e disumanità perché i pazzi stanno su un confine tra umano e bestiale e dunque per loro non valgono le leggi morali. Per contenere la loro pazzia si può tutto. Basta che il contagio non si estenda, basta che siano sottratti all’occhio della polis che prospera nei suoi civili convenevoli, nella sua ipocrita bontà.

È un non luogo speculare alla polis, è alter così come il pazzo di fronte al “sano”, così come Antigone di fronte alla perseveranza del re Creonte.

Il fascio di luce della torcia del guardiano illumina schedari e rovine dove i ragni tessono le loro tele e gli insetti respirano.

Dalle cartelle numerate senza più un ordine legato alla successione, emergono destini, scaglie di vita concentrati in un nome: Umberto, Modestina, Maria, Luigi ed ancora altri bisbigliano, dall’aridità di carte e documenti, frammenti di una storia che è, insieme, personale e collettiva.

Il Coro sa che conoscere un dato / o un uomo / è la discriminante tra la scienza e l’amore.

Dalle cartelle compaiono anche nomi di poeti come Sylvia Plath, Majakovskij e, soprattutto, Hölderlin. Poeti smisurati che si sono spinti fino alle soglie di sé stessi, della propria identità (io che non sono io, dice la cartella n. 603 di Sylvia Plath), che hanno eroso i lembi della parola poetica per farla splendere nella sua interezza, che con la loro vita e la loro morte si sono fatti altro da sé per guardare le stesse viscere dell’umano.

Da questo limite, i poeti parlano della metamorfosi, della possibilità di danzare sul tempo che ci consuma e ci affratella, che ci proietta in nuove forme.

Proprio Hölderlin, che ha abitato la notte della mente, dell’Antigone sofoclea è un traduttore atipico poiché, scuotendo e scavando la lingua, egli ricrea in senso moderno quella stessa capacità emozionale che l’originale aveva sugli antichi. Attraverso le sue note di traduzione e la sua potente invenzione linguistica annuncia una verità che Trucillo accoglie e fa sua: la comunanza alla quale Antigone chiama non è solo quella del sangue, ma quella che deriva dal legame universale di ogni essere umano con gli altri. È un legame nato dalla condivisione di sofferenza e morte che segnano il tempo e l’aspettativa umana. È il senso greco del destino. Nella sua solitudine tragica, Antigone ne è cosciente.

Tra le schede compare anche quella con il nome di Basaglia. È la cartella n. 0, un numero flesso in una molteplicità che disegna un vasto arco da niente a tutto, che dà valore alla posizione, che accresce o annulla. Zero, dai margini del sistema di numerazione, è un decentramento che permette di superare la cieca autorefenzialità della somiglianza e di guardare dalla prospettiva della divergenza. Così Basaglia, nei versi di Trucillo, non è solo una premessa cronologica di un nuovo modo di concepire la cura, ma soprattutto è la consapevolezza che tutto ciò che vive / inizia ancora, è la visione che abbraccia in un unico orizzonte l’umano: Tra il dentro e il fuori / c’è l’uomo, / intrecciato con tutto / e sempre intero / come un ponte di liane.

Il vero dono, ci dice il poeta, è in un originario essere tutti. È questa verità che Basaglia ci affida.

Lo scontro tra l’individuo e la polis, tra la ragione dell’intelletto e quella del cuore, inaridisce le stesse radici su cui la comunità si regge perché riduce tutto ad un unico aspetto, ad un relativismo colpevole che inquina il vivere comune: Il male può sembrare un bene / se gli Dei dell’epoca / ti accecano la mente, / e la struttura generale / risolve tutto / nella sua accelerazione stabilita.

Anche politicamente, è la pluralità il fondamento della condizione umana.

Una lucida costruzione architettonica eleva l’edificio poetico su diversi livelli stilistici. I suoni si richiamano come in un processo di gemmazione in cui le sillabe che compongono il verso sembrano sbocciare l’una dall’altra, snodandosi nella potenza di vibrazioni affilate o nella morbidezza di parole avvolgenti.

Nell’Antigone di Trucillo, la tragedia si è già consumata. Il suo tempo è divenuto evanescenza e metamorfosi. Resta la possibilità di illuminare con una luce fioca ciò che è stato per guardarlo nella sua spettrale inesistenza che, tuttavia, lo rende enormemente presente. Allora, Antigone, piccola lucciola, avversa il flusso indifferente / della morte. Nell’intermittenza della sua luce, che si dilata e si contrae come in una nascita, prende su di sé tutte le storie di quelli sepolti nel silenzio dell’oblio, le incarna per affidarle al coro e a chi vorrà seguirla perché diventi plancton / che integra le vite.

Il concetto di fratellanza, che prima dell’epilogo chiude il testo e che è così giovane nella storia degli uomini, qui si innesta nella comune consapevolezza del caos. Un movimento circolare ci riconnette all’origine e, nel contempo, all’inizio del poemetto. Il Prologo si apre, infatti, con la forza di una domanda che, anche quando proviamo ad allontanare, continuamente risuona nelle nostre coscienze: Chi sei, fuori dagli altri?

È una domanda radicale perché la pluralità di forme e vite attraversate ci racconta chi siamo, il dolore di volti silenziati. Volti e destini che, infine, Trucillo affida alla fluidità dell’acqua, a un comune fondale umano. Nell’acqua tutte le storie si sciolgono e si integrano in un’ondata di spuma collettiva. Si nutrono della sottile potenza della metamorfosi, della tenace libertà degli inizi.

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