Bruno Pizzul, semplicemente calcio | il manifesto


È stato tutto davvero molto bello. Sono stati belli quei terreni di gioco «gibbosi», quel «caracolla» lungo la fascia, quel «Roberto!» quando Baggio entrava in azione. Bruno Pizzul è stato la colonna sonora degli innamorati del calcio.

Dobbiamo ammetterlo: quel calcio e quei commentatori ci mancano molto. Per una ragione molto semplice: l’umanità che traspariva in campo e al microfono. Perché il calcio, lo diceva il grande Cruijff, è un gioco semplice. Difficile è giocarlo semplicemente, aggiungeva. Come per le telecronache o per le radiocronache. È un esercizio semplice, a condizione che non si tradisca la loro essenza.

BRUNO PIZZUL LO SAPEVA bene. Accompagnava le immagini con la competenza di chi il calcio lo aveva giocato da professionista e con la sensibilità di chi si metteva al servizio del telespettatore. Mai da protagonista ma da “testimone”, secondo quel principio impeccabilmente evocato da Enzo Biagi: il giornalista è un testimone della realtà. Non è una differenza da poco quella tra il protagonista e il testimone quando si parla di microfono. La tentazione di ergersi a cantori dai quali dipendono gli eventi è forte. Come altrettanto forte è il rischio di crederci davvero e di cercare iperbole o aggettivazioni esagerate. Magari a tavolino addirittura, prima che gli eventi abbiano inizio. Capita più frequentemente di quanto non si creda: la frase ad effetto è una firma quasi indelebile. Ma un conto è cercarla prima e un conto è farla emergere spontanea mentre la partita scorre sotto i tuoi occhi.

BRUNO SI PRESENTAVA in postazione senza foglietti già scritti. Del resto, si può scrivere una telecronaca prima che il gioco inizi? Gli appunti distraggono, diceva, ti fanno abbassare l’occhio sulla carta mentre l’imprevedibile pallone disegna destini che a te potrebbero sfuggire. È importante ciò che rimane in memoria. Quello che rimane è ciò che conta davvero, ciò che vale la pena evocare al microfono. E poi c’è la partita, è quella che devi raccontare.

Era un maestro. Ma non sapeva di esserlo, forse non lo voleva nemmeno. Non era nella sua indole di friulano concreto e sobrio, fatto di cose semplici: un buon bicchiere di vino quando non si lavorava, una sigaretta, una partita a carte con gli amici raggiunti rigorosamente in bicicletta nella sua Cormons o dalle parti di Corso Sempione a Milano. Anche perché Pizzul non guidava, non ha mai avuto la patente e non si è mai pentito di non averla.

La disperazione di Roberto Baggio dopo il rigore fallito nella finale di Usa ’94 (foto Ansa)

È STATO LA VOCE delle “notti magiche”, la voce che accompagnava gli occhi spiritati di Schillaci in quel mondiale del ’90 che pensavamo davvero di poter vincere. Prima che Maradona e i suoi frantumassero i nostri sogni al San Paolo. È stato la voce anche 4 anni dopo, quelli della rivoluzione sacchiana in terra americana. In quel Mondiale la nazionale ci andò davvero vicina. A Pasadena però “Roberto”, il giocatore che forse amava di più, calciò quel pallone oltre la traversa mandando all’aria i suoi sogni e i nostri. Anche quelli di Bruno, naturalmente, che non ha potuto mai gridare nella sua vita «Campioni del Mondo». Anche se lui non l’avrebbe proprio gridata; l’avrebbe tessuta con note calde e convincenti senza isterismi.

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PUBBLICAMENTE non si è mai rammaricato di non aver raccontato un titolo mondiale o un europeo. I mondiali li vincono i giocatori, non i telecronisti o i radiocronisti. Ecco la differenza tra un protagonista e un testimone. Ma, e questo lo afferma chi scrive, pochi lo avrebbero meritato come lui.

Bruno Pizzul ha raccontato anche la tragedia dell’Heysel. Quelle drammatiche immagini erano troppo, per tutti. Non c’era bisogno di accentuarne il dolore. E non lo fece. Cercò di accompagnare la nostra sofferenza e quella di chi aveva i suoi cari a Bruxelles con sensibilità, umanità, persino dolcezza, se era possibile averne in quei momenti.

I critici televisivi, in passato, usavano dire, per celebrare il successo di un protagonista della tv, che “rompeva” il vetro, il vetro dello schermo. Pizzul ci riusciva perfettamente entrando nel salotto di casa degli italiani in punta di piedi. Frasi brevi, incisive, chiare a tutti. Zero termini tecnici. Nessuna pretesa di insegnare il calcio dal microfono del servizio pubblico.

BRUNO NON SI SDOPPIAVA, non esisteva un Pizzul di tutti i giorni e un Pizzul allo stadio. Era sempre se stesso e i telespettatori lo capivano. Lo capivamo anche noi che lo frequentavamo. Lo capivano i calciatori. Difficile trovare giornalisti che, come Pizzul, fossero capaci di conquistare l’amicizia sincera dei giocatori. Lo riconoscevano tra l’altro come uno di loro, che aveva giocato e che sapeva leggere nel cuore e nella mente di chi sta in campo.

Anche in questo era unico: nel leggere la delusione sportiva dopo una sconfitta. Una delusione che, senza mai ricorrere alla retorica, condivideva con i perdenti e con il pubblico. Alla stregua di quanto avveniva, al contrario, per una vittoria. Perché lo sport sono vittorie e sconfitte. È in questo la sua straordinaria umanità che logiche scellerate di spettacolarizzazione vorrebbero cancellare, ignorando che così facendo si rischia di cancellare anche il calcio. Almeno come sport.

PIZZUL VOCE DEL PASSATO? Ogni generazione ha avuto i suoi narratori di sport; è indubitabile. La Tv ha iniziato con Carosio e ha proseguito con Martellini prima di arrivare a Pizzul. Ognuno di loro è stato espressione del suo tempo in un sottile filo che li univa nell’evoluzione. Ma non sarebbe tornare al passato rimettere in gioco alcuni valori, primo fra tutti il rispetto del pubblico che vuole vivere un’emozione e non subire lezioni tattiche o urla inconsulte.

In questo Bruno Pizzul sarebbe un ottimo maestro anche oggi per i tanti giovani telecronisti che la moltiplicazione delle piattaforme nell’etere ha fatto nascere, magari con un pizzico di improvvisazione.

Non credo che dimenticheremo facilmente il suo stile. Ascoltarlo nelle tante registrazioni ancora disponibili ci riporterà a un calcio più umano perché più umani erano i suoi protagonisti, più simili a noi. Anche nelle loro debolezze.

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E CI TORNERÀ IN MENTE, magari, il rumore di quell’accendino che entrava irriverente nel microfono quando Bruno si accendeva una sigaretta in telecronaca. A quel tempo non era ancora proibito. Bruno alle sue aveva ormai rinunciato, già molti anni fa. Prima che ci lasciasse orfani di un calcio che non aveva ancora pensato di trasformarsi in intrattenimento, di un calcio fatto di racconti pacati e pieni di passione. Quelli di Bruno Pizzul.



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