La Corte costituzionale interviene sulla messa alla prova semplificata per i minori


La disciplina della messa alla prova per i minori è stata recentemente oggetto di una significativa pronuncia della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 27-bis, comma 2, del d.P.R. n. 448/1988 nella parte in cui affidava al Giudice per le indagini preliminari (GIP) il compito di deliberare sull’ammissione del minore al percorso di reinserimento e rieducazione. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione.

1. Il fatto


Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minorenni di Trento era investito di un procedimento a carico di un minorenne il quale, nel contesto di una lite familiare, avrebbe minacciato il padre con un coltello da cucina, in tal modo integrando il reato di cui agli artt. 612 e 339 del codice penale.
In particolare, dopo l’interrogatorio del minore, il pubblico ministero aveva notificato una proposta di definizione anticipata del procedimento tramite percorso di rieducazione, ai sensi della norma censurata; che il difensore dell’indagato, segnalando la delicatezza della situazione del ragazzo e la necessità di un intervento strutturato, aveva chiesto una proroga del termine di sessanta giorni, stabilito dalla norma medesima per il deposito del programma di reinserimento; che il pubblico ministero aveva tuttavia negato la proroga, con l’argomento che essa non sarebbe prevista dalla norma di riferimento; che il difensore aveva quindi depositato un programma rieducativo nel quale si prevedeva unicamente lo svolgimento di un’attività di volontariato in un centro di aggregazione territoriale. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione.

2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione: la disciplina della messa alla prova


Prima di vedere come è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale nel caso di specie, giova osservare prima come il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minorenni di Trento non considerava praticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata, che ovviasse alla carenza di informazioni sulla condizione del minore per il tramite degli strumenti conoscitivi previsti in linea generale dagli artt. 6 e 9 del d.P.R. n. 448 del 1988 visto che, a suo avviso, l’impiego di questi mezzi istruttori produrrebbe  una dilatazione dei tempi di definizione del procedimento e un aggravio di funzionamento dei servizi minorili, il che colliderebbe con gli obiettivi di celerità e deflazione perseguiti dal legislatore della novella, obiettivi resi viepiù evidenti dall’inciso «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica», introdotto dall’art. 6, comma 1, lettera 0a), dello stesso d.l. n. 123 del 2023, come convertito, riguardo all’avvalimento dei servizi minorili contemplato dall’art. 6 del d.P.R. n. 448 del 1988, così come non sarebbe d’altronde enucleabile un’interpretazione adeguatrice che consenta al giudice di integrare il programma ritenuto incongruo ai fini educativi: l’integrazione officiosa del progetto risulterebbe per vero «incompatibile con la natura negoziale della proposta educativa», atteso che «la determinazione del suo contenuto è rimessa alla difesa», fermo restando che, in caso di ritenuta incongruità del programma, il giudice neppure potrebbe disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero, perché questa integrerebbe un’inammissibile regressione atipica del processo, considerato che, al momento della valutazione del progetto rieducativo, già vi sarebbe stato l’esercizio dell’azione penale, pur se in modo informale, «senza alcuna garanzia processuale tipicamente associata a tale atto».
Stante tale situazione, questo G.I.P., pertanto, sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 31, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 27-bis del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), inserito dall’art. 8, comma l, lettera b), del decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 (Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 novembre 2023, n. 159.
Nel dettaglio, ad avviso di codesto Tribunale, la norma in questione non contempla «gli elementi conoscitivi indispensabili per valutare se il contenuto del programma rieducativo sia congruo rispetto ai fini educativi cui costituzionalmente deve tendere il processo penale minorile», attesa pure «la composizione monocratica dell’organo chiamato a pronunciarsi e quindi l’assenza della componente onoraria e del suo apporto per la valutazione in termini personalistici ed educativi del minore».
In effetti, introducendo una peculiare messa alla prova “semplificata”, per il giudice a quo, la norma contestata avrebbe sacrificato la finalità rieducativa a obiettivi di celerità procedimentale e risparmio delle risorse visto che la collocazione del nuovo istituto nella fase delle indagini preliminari, affidata a un giudice privo della componente esperta, in uno alla fissazione di un termine breve e improrogabile per l’elaborazione del programma di recupero, renderebbe impossibile assicurare la portata educativa della risposta penale e «allo stesso tempo – larvatamente – ne riesum[erebbe] la funzione retributiva», e tali rilievi varrebbero per tutti e tre i momenti nei quali andrebbe idealmente scomposto l’iter del programma rieducativo, cioè il deposito, l’ammissione e la valutazione.
Quanto al deposito, sempre per tale organo giudicante, la strettezza e rigidità del termine di sessanta giorni imposto alla difesa sarebbe incompatibile con le esigenze istruttorie di un «programma personalizzato», senza il quale verrebbe ad esaltarsi una connotazione retributiva dell’istituto, anziché rieducativa, posto che il reato contestato finirebbe per apparire «l’unico dato certo sul minore»; la partecipazione dei servizi minorili risulterebbe «secondaria e strumentale, volta non già a elaborare il programma, previa conoscenza del minore, ma limitata alla mera individuazione di quelle attività che dovranno essere poste a completamento del programma rieducativo», il che potrebbe ridondare anche in una disparità di trattamento, precludendo l’accesso all’istituto per i minori la cui situazione socio-familiare reclami una più complessa analisi, tanto più se si considera che, in quanto affidata al giudice per le indagini preliminari – quindi un giudice monocratico togato e non un collegio integrato da esperti in ambito psico-pedagogico –, l’ammissione al percorso di rieducazione non potrebbe riflettere una compiuta ponderazione delle esigenze di risocializzazione del minore, finendo dunque per svolgersi, ancora in un’ottica prevalentemente retributiva, «solo attraverso dati strettamente oggettivi quali il reato per cui si procede».
Infine, per il Tribunale trentino, la carenza dell’apporto multidisciplinare inficerebbe anche la valutazione dell’esito del percorso rieducativo, la quale peraltro verrebbe effettuata senza che l’imputato sia stato nel frattempo preso in carico dai servizi minorili e senza che questi ultimi abbiano trasmesso al giudice una relazione conclusiva, come viceversa stabilito per l’ordinaria messa alla prova del minore, e finanche per la messa alla prova dell’adulto, preso in carico dall’ufficio di esecuzione penale esterna.

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3. La soluzione adottata dalla Consulta


La Corte costituzionale, una volta respinte le eccezioni sollevate dalle parti costituite, riteneva le questioni sollevate nella fattispecie in esame fondate.
In particolare, dopo essere stata compiuta una sintetica illustrazione in merito alla novità dell’istituto introdotto dalla norma censurata, il Giudice delle leggi osservava come la valutazione delle doglianze richieda un confronto tra l’assetto normativo del nuovo istituto, appena descritto, e il quadro costituzionale della prova minorile, delineato dalla giurisprudenza costituzionale, il che veniva fatto nei seguenti termini.
Si notava in primo luogo che «[i]l tratto qualificante dell’istituto è rappresentato dall’adozione di un progetto di intervento che si traduce in una serie di prescrizioni individualizzate e a contenuto variabile perché tarate sul profilo personologico del minore e sul contesto socio-familiare in cui questi è inserito» (sentenza n. 8 del 2025) visto che i giudici di legittimità costituzionale hanno costantemente sottolineato l’eterogeneità teleologica tra la messa alla prova del minore e quella dell’adulto, poiché quest’ultima ha un’innegabile componente sanzionatoria, mentre l’altra ha funzione esclusivamente rieducativa (sentenze n. 139 e n. 75 del 2020, n. 68 del 2019).
In secondo luogo, si sottolineava che la diversità di funzione si manifesta nel contenuto della prova giacché, a norma dell’art. 168-bis, terzo comma, cod. pen., la prestazione del lavoro di pubblica utilità è una condizione imprescindibile della prova dell’adulto, mentre l’art. 27 del d.lgs. n. 272 del 1989 non menziona il lavoro tra le prescrizioni obbligatorie del progetto di prova minorile (sentenze n. 75 del 2020 e n. 68 del 2019), evidenziandosi al contempo che, nella disciplina originaria, anteriormente all’introduzione del comma 5-bis dell’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988 da parte dell’art. 6, comma 1, lettera c-bis), del d.l. n. 123 del 2023, come convertito (sul quale questa Corte ha pronunciato la ricordata sentenza n. 8 del 2025), la messa alla prova del minore, al contrario di quella dell’adulto, era svincolata da un rapporto di proporzionalità al reato per cui si procede, ed era infatti consentita a prescindere dalla gravità di questo, la quale si rifletteva soltanto sulla durata della prova (sentenze n. 139 del 2020 e n. 68 del 2019).
Oltre a ciò, era fatto altresì presente che, quale istituto puramente educativo, la messa alla prova del minore è sottratta alla negoziazione tra le parti, non richiedendo il consenso del minore, né del pubblico ministero, ed è rimessa alla discrezionalità del giudice (sentenze n. 139 del 2020 e n. 125 del 1995).
Per la Consulta, il giudice della prova minorile deve perciò avere le competenze interdisciplinari necessarie alle valutazioni personologiche richieste dalla finalità educativa dell’istituto, e non è quindi irragionevole che, a differenza della prova dell’adulto, la quale può essere disposta anche in fase di indagini preliminari ex art. 464-ter cod. proc. pen., la prova del minore possa essere disposta solo più avanti, in udienza preliminare, laddove il giudice è un collegio integrato dagli educatori (sentenza n. 139 del 2020).
D’altronde, «[l]a finalità essenzialmente rieducativa della messa alla prova minorile si oppone a un’eccessiva anticipazione procedimentale delle relative valutazioni», sicché l’opzione legislativa di escludere la messa alla prova del minore durante le indagini preliminari e di fissare nell’udienza preliminare il primo momento utile per l’accesso all’istituto «corrisponde ragionevolmente all’esigenza di assicurare che le relative valutazioni siano esercitate su un materiale istruttorio sufficientemente definito, oltre che da un giudice strutturalmente idoneo ad apprezzarne tutti i riflessi personalistici» (ancora, sentenza n. 139 del 2020).
Di conseguenza, per la Corte, la difformità di soluzioni negoziali-deflattive rispetto agli obiettivi educativi del processo minorile – difformità che ha giustificato l’esclusione da tale processo anche dell’istituto del patteggiamento della pena (sentenze n. 272 del 2000 e n. 135 del 1995) – si oppone all’esportazione in ambito minorile dell’anticipazione della prova alla fase delle indagini preliminari poiché la prova anticipata, per la disciplina dell’art. 464-ter cod. proc. pen., è una prova negoziale e patteggiata, basata su un accordo di convenienza tra l’indagato adulto e il pubblico ministero, «secondo un indirizzo di politica legislativa cui non sono estranee finalità generali di deflazione giudiziaria per reati di contenuta gravità», il che non è replicabile per la messa alla prova del minore, «poiché l’essenziale finalità rieducativa ne plasma la disciplina in senso rigorosamente personologico, estraneo ogni obiettivo di deflazione giudiziaria» (sentenza n. 139 del 2020).
Orbene, per il Giudice delle leggi, all’interno di queste coordinate, le doglianze in scrutinio esigevano, su uno specifico e tuttavia essenziale aspetto, qual è quello della composizione del giudice investito della procedura, una pronuncia di illegittimità costituzionale di tipo sostitutivo, mentre, per gli aspetti ulteriori, la norma censurata si presta ad un’interpretazione costituzionalmente orientata.
In merito al primo profilo, i giudici di legittimità costituzionale notavano prima di tutto che la messa alla prova, quale istituto di protezione della gioventù, ai sensi dell’art. 31, secondo comma, Cost., ha lo scopo primario di favorire l’uscita del minore dal circuito penale, la più rapida possibile, soprattutto attraverso una riflessione critica del giovane, sul proprio vissuto e la propria condotta, in mancanza della quale l’istituto stesso diverrebbe mezzo di pura deflazione, tra l’altro stimolando, per una sorta di eterogenesi dei fini, calcoli opportunistici dell’indagato minorenne, fermo restando che, al perseguimento di questo delicato obiettivo, sono funzionali la composizione pedagogicamente qualificata dell’organo giudicante e il sostegno continuo dei servizi minorili, in difetto dei quali la prova del giovane non raggiunge la finalità costituzionale sua propria, piegandosi verso la logica, completamente diversa, dell’istituto per adulti.
Invece, quanto alla struttura del giudice, per la Corte costituzionale, la norma censurata, nel testuale riferimento, al comma 2, al «giudice per le indagini preliminari», si oppone a qualunque interpretazione adeguatrice, poiché il GIP minorile, a norma dell’art. 50-bis, comma 1, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), è giudice singolo, privo della componente onoraria esperta e, quindi, in ossequio all’art. 31, secondo comma, Cost., la dizione della norma censurata deve essere sostituita con quella «giudice dell’udienza preliminare», con riferimento, cioè, all’organo che, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 50-bis, è composto, oltre che dal magistrato, da due giudici onorari esperti.
Per conseguenza, ogni riferimento al «giudice», contenuto nei commi dell’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988 successivi al comma 2, deve essere inteso come riferimento al GUP.
Ciò posto, quanto invece al ruolo dei servizi minorili, l’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988, nonostante una formulazione non perspicua, per i giudici di legittimità costituzionale, contiene elementi da valorizzare nel senso della presenza costante della struttura pubblica a fianco del minorenne in prova, essendo eloquente a tal proposito la disposizione del comma 4, che, prevedendo un’informativa dei servizi al giudice circa l’interruzione o mancata adesione del minore al percorso rieducativo, evidentemente postula che il minore stesso sia seguito dai servizi, fin dall’inizio della prova e durante il suo svolgimento.
Del resto, non potendo lo stesso programma di reinserimento essere elaborato senza l’intervento dei servizi minorili giacché, per il comma 1 dell’art. 27-bis, questi devono sempre essere «sentiti» in merito, e anzi, per il successivo comma 2, il programma deve essere redatto collaborando «anche» con i servizi minorili, laddove la particella non allude alla mera eventualità, ma a un vero e proprio obbligo di coinvolgere “anche” (e dunque “altresì”) i servizi minorili stessi, se ne fa discendere da ciò che, alla fine del periodo di sospensione, allorché deve valutare l’esito del percorso rieducativo agli effetti del comma 6 dell’art. 27-bis, il giudice provvede sulla base della relazione conclusiva trasmessa dai servizi, non diversamente da quanto accade per la prova minorile ordinaria, a norma dell’art. 27, comma 5, del d.lgs. n. 272 del 1989.
All’indicazione del GUP, quale organo officiato dell’ammissione del minore al percorso di reinserimento, corrisponde pertanto, per la Corte, la qualificazione della proposta del pubblico ministero come atto di esercizio dell’azione penale.
Nel dettaglio, per quanto il comma 1 della norma censurata abbia un riferimento temporale piuttosto generico («[d]urante le indagini preliminari»), esso deve interpretarsi nel senso che la proposta del pubblico ministero possa intervenire solo quando sia sufficientemente definito il contesto del fatto-reato e il quadro esistenziale del minore, quando cioè sia possibile valutare, non soltanto che «i fatti non rivestono particolare gravità», come esige lo stesso comma 1, ma anche che non sia possibile chiedere la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988, tanto più se si considera che il tenore letterale della norma in questione non preclude tale interpretazione, e anzi la accompagna, laddove si riferisce al minore, raggiunto dalla proposta ex art. 27-bis, come «imputato» (comma 3), laddove parla di conseguente sospensione del «processo» (ancora, comma 3) e di eventuale estinzione del reato per «sentenza» (comma 6).
Ebbene, in questa prospettiva, per la Corte, la restituzione degli atti al pubblico ministero – cui l’art. 27-bis si riferisce per le ipotesi di ingiustificata interruzione ed esito negativo del percorso rieducativo (commi 5 e 6) – non è una restituzione funzionale all’esercizio dell’azione penale (già avvenuto e irretrattabile), ma una restituzione finalizzata a un nuovo impulso processuale sulla medesima imputazione (eventualmente tramite la richiesta di giudizio immediato, svincolata dai presupposti comuni, che lo stesso art. 27-bis, commi 5 e 6, la cui legittimità costituzionale non è posta in discussione dal rimettente, consente in tali ipotesi).
Ciò posto, per i giudici di legittimità costituzionale, atteso che la proposta del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988, integrando esercizio dell’azione penale, postula un’indagine adeguata, sia sulla consistenza del fatto-reato, sia sulle condizioni esistenziali del minore, non può la norma censurata essere interpretata isolatamente dagli artt. 6 e 9 dello stesso decreto, che impongono il coinvolgimento dei servizi minorili e dei servizi socio-sanitari da parte dell’autorità giudiziaria e, rispettivamente, gli accertamenti sulla personalità del minorenne a iniziativa del pubblico ministero e del giudice dal momento che la tesi, sostenuta dal rimettente, secondo cui a tale interpretazione osta l’inserimento nell’art. 6 del d.P.R. n. 448 del 1988, ad opera dell’art. 6, comma 1, lettera 0a), del d.l. n. 123 del 2023, come convertito, della clausola «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica», tuttavia, per la Consulta, essa non può interpretarsi come riferita all’impiego ordinario dei servizi minorili già previsto dalla legge, ma soltanto a eventuali forme atipiche e straordinarie di impegno degli operatori.
Del resto, sempre per il Giudice delle leggi, anche la contrazione procedimentale determinata dalla brevità del termine di deposito del programma rieducativo è suscettibile di adeguamento interpretativo.
In effetti, se il comma 2 dell’art. 27-bis ha un’apparenza cogente, in quanto prescrive che il deposito del programma «deve avvenire» entro sessanta giorni, il che, nel caso di specie, ha prima indotto il pubblico ministero a negare la proroga del termine e poi il giudice rimettente a considerare il termine stesso come perentorio, in realtà, il termine può intendersi ordinatorio, perché, ai sensi dell’art. 173 cod. proc. pen. – norma applicabile al procedimento minorile per effetto del rinvio ex art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 448 del 1988 –, in difetto di un’espressa previsione decadenziale, il termine è prorogabile.
Alla luce di tale interpretazione, dunque, se, per giustificate ragioni, non riesce a rispettare il termine di deposito di sessanta giorni e necessita di altro tempo per redigere il programma rieducativo, la difesa del minore può ottenere una proroga dal pubblico ministero; e lo stesso pubblico ministero può concedere una proroga del termine in funzione della sollecitazione rivolta alla difesa affinché integri un programma lacunoso.
Chiarito ciò, riguardo alla valutazione di congruità del percorso di reinserimento, che il comma 3 dell’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988 prescrive in funzione dell’eventuale ammissione alla prova, per la Corte, se l’omessa previsione della facoltà del giudice di integrare o modificare il programma rieducativo potrebbe indurre a ritenere che il giudice stesso si trovi davanti all’alternativa secca – accettare o respingere l’accordo dalle parti –, sì da atteggiarsi quasi a un giudice del patteggiamento dell’adulto, anche questa incongruenza si presta tuttavia ad una correzione interpretativa, sulla base di quanto la giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato per la prova minorile ordinaria, dovendosi in particolare ritenere che al giudice non sia precluso disporre integrazioni o modifiche del progetto di intervento, ma solo farlo in modo unilaterale, senza consultare le parti e i servizi (Corte di Cassazione, Sezione quarta penale, sentenza 28 gennaio-5 febbraio 2020, n. 4926; sezione quinta penale, sentenza 20 marzo-10 aprile 2013, n. 16332).
Infine, per quanto riguarda l’oggetto della prova, sebbene il comma 1 dell’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988 sembri privilegiare la prestazione di attività lavorativa da parte del minore, tanto da far espressamente salvo il «rispetto della legislazione in materia di lavoro minorile», ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, il tenore della norma consente un’interpretazione conforme all’art. 31, secondo comma, Cost., da due angolature concorrenti.
In primo luogo, tra le «altre attività a beneficio della comunità di appartenenza», menzionate dallo stesso comma 1 dell’art. 27-bis, possono annoverarsi anche attività non strettamente lavorative, ma di carattere socio-relazionale, in modo non dissimile da quanto accade nella prova minorile ordinaria.
Inoltre, il sistema giuridico minorile contiene previsioni di salvaguardia – in particolare quelle sulle misure penali di comunità – estensibili per analogia, di modo che, anche per gli eventuali impegni lavorativi oggetto della prova semplificata, valga la cautela che «non devono mai compromettere i percorsi educativi in atto» (art. 3, comma 2, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p, della legge 23 giugno 2017, n. 103»).
Per di più, veniva oltre tutto sottolineato che, in virtù della pronuncia sostitutiva sulla composizione del giudice e dei descritti adeguamenti interpretativi, la norma censurata si sottraeva alla richiesta di ablazione radicale, anche in ragione del fatto che il nuovo istituto, per come modificato in sede di conversione del d.l. n. 123 del 2023, non preclude ulteriori percorsi procedimentali, incluso quello della messa alla prova ordinaria.
Per tutto quanto esposto, l’art. 27-bis, comma 2, del d.P.R. n. 448 del 1988 era dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 31, secondo comma, Cost., nella parte in cui indica «giudice per le indagini preliminari», anziché «giudice dell’udienza preliminare, ai sensi dell’art. 50-bis, comma 2, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario)».



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