La tentata evasione dal carcere di Alessandria nel maggio del 1974. La memoria della strage.


Nel numero unico del 1949 de “Il Ponte” Calamandrei raccolse alcune delle più significative testimonianze sul carcere dei prigionieri politici durante il fascismo. Nutrito della sua sensibilità di giurista aveva anche scelto tale strada obliqua per documentare in modo inoppugnabile la condizione, storica e di lunga durata, miserabile e medievale, dei detenuti nelle prigioni italiane in Italia. Il risultato fu sostanzialmente nullo, il sistema carcerario italiano rimase animato e diretto da una spirito fascista, borbonico e spesso semi-feudale, Miscela micidiale di abitudini e comportamenti extralegali. Il cittadino rinchiuso nel sistema penitenziario perdeva immediatamente i diritti costituzionali, come d’altronde non li conservava nell’esercito, negli istituti minorili, e nei manicomi. In generale nelle istituzioni totali in Italia vigeva in pratica un “altro” diritto che oltre ad essere oppressivo avvelenava ogni tentativo di rendere meno illegittimo ed ingiustificato il suo sistema di governo. Uno dei pochi testimoni attenti fu Antonio Pesenti che nel suo libro La cattedra ed il bugliolo fin dal titolo rievocò, con la precisione ai dati empirici dell’economista, le minute angherie del sistema carcerario. Ricordò per esempio che le verze coltivate nell’orto dai detenuti venivano accuratamente divise in due parti: l’esterno della verdura veniva riservato ai soli detenuti, il cuore prendeva un’altra strada.

Dai primi arresti dei militanti di sinistra nel 1969 e negli anni seguenti, tale situazione venne per la prima volta non solo rivelata in tutta la sua crudezza di domino e brutalità, ma anche immediatamente contrastata in tutte le forme possibili, violente e non, legali ed extra-legali, con comportamenti individuali o in forme collettive. Venne formulata e preparata nel 1969 alle Nuove di Torino una piattaforma “ riformista” redatta da Sofri e Mochi con alcuni precisi obiettivi, anche se le forme di lotta spesso rimanevano, di fronte alla sordità del sistema politico, con un’ impronta violenta con una deriva semplicemente iconoclasta e distruttiva. La timida riforma del 1974, che era stata prontamente bonificata alla Camera dei suoi aspetti più innovatori prima di essere approvata, e l’irrompere della lotta armata con la susseguente formazione dell’area delle carceri speciali, il cosiddetto “circuito dei camosci”, furono le tappe finali di questo periodo. La strage del carcere di Alessandria va quindi collocata all’interno e nel pieno delle tensioni maturate nel primo periodo del movimento dei detenuti e delle risposte che le istituzioni decisero per fronteggiarlo, a freddo e senza indugi. Reazione dello Stato che non prevedeva più un comportamento di mediazione e contrattazione d’urgenza con il movimento in un ricorrersi parossistico di dure repressioni e di accordi di fatto e non di diritto.

In realtà la strage di Alessandria è stata da sempre allontanata dalla coscienza pubblica ed istituzionale in città con una meccanismo di rimozione che in termini psicanalitici vien chiamata “disattenzione difensiva”, ma ora sappiamo che il silenzio è dovuto ad una precisa scelta politica operata fin da subito, in concomitanza con gli eventi. La vicenda di Alessandria ha inizio in realtà il 24 febbraio 1974 a Firenze, nel carcere delle Murate, allorquando Giancarlo del Padrone, un detenuto di vent’anni detenuto per furto di auto, viene ucciso, falciato da una raffica di mitra, mentre era sui tetti durante una delle tante ondate di manifestazioni e lotte nelle carceri fiorentine, uno dei penitenziari più turbolenti ed ingovernabili. Proprio in quell’occasione si manifesta la prima aperta rottura fra la Commissione Carceri di Lotta Continua – che era stata l’unica organizzazione che aveva per prima tentato di dare una struttura politica ed informativa al movimento – e alcune aree politiche contigue a Firenze e a Napoli. Tra i fondatori ed animatori del Collettivo Jackson di Firenze c’erano i fratelli Luca e Annamaria Mantini, entrambi poi morti durante la loro militanza nei Nap. Di sfuggita e solo per dare l’idea del destino crudele di quest’area politica basta richiamare il dato che su 65 inquisiti in totale i Nap ebbero 7 morti, la percentuale più alta di perdite ( il 10% )e si resero responsabili di 4 uccisioni, 6 ferimenti tra poliziotti e magistrati. Sulla separazione dei Nap da LC si deve vedere Luigi Bobbio, Lotta Continua. Storia di una organizzazione rivoluzionaria, Roma, Savelli, 1979 che rimane il testo più serio ed onesto. Per quanto riguarda i collegamenti con Alessandria l’articolo che ho scritto nel 2014 La strage del carcere di Alessandria, la lotta armata e la strategia politica dei Nuclei Armati Proletari ( 1974-1975), in “QSC”, ,56, 2014.

IL 9 maggio alle ore 9,30 tre detenuti arrivati in infermeria con il pretesto della necessità di cure mediche, sequestrarono in successione ventiquattro tra insegnanti, detenuti e guardie. Dopo poco visto l’eccessivo affollamento si liberarono alcuni detenuti fino ad arrivare a 14 ostaggi e due detenuti. Alle 10,30 il Procuratore di Alessandria si presentò al cancello dell’infermeria per la presa di contatto e il portavoce dei sequestratori, Cesare Concu, fece presente che il loro obiettivo era una evasione “negoziata”. Concu che era stato il leader della protesta nel gennaio dello stesso anno, cercherà di inserire la tentata evasione nel quadro delle proteste per il blocco della riforma carceraria. Nel comunicato che viene consegnato alle autorità si legge infatti che “ gli ex detenuti. L’azione è stata provocata dal comportamento irresponsabile del Governo che si ostina a non concedere la riforma del sistema penitenziario e del codice penale. Se essi fossero stati riformati noi avremmo potuto uscire, quindi , stanchi di essere presi in giro decidiamo di prenderci ciò che ci spetta. Togliendoci la recidiva soltanto noi saremmo già liberi, quindi tali ci riteniamo. Attraverso la nostra azione potete ben comprendere che siamo decisi a tutto, quindi niente discorsi inutili. Sappiamo precisamente quello che facciamo e ciò che vogliamo ottenere. Poiché non siamo degli sprovvediti, tutt’altro, abbiamo un buon bagaglio di esperienze, sarebbe quindi inutile e deleterio ogni vostro tentativo per ingannarci o sopraffarci, non pensate neanche lontanamente di usare qualsiasi mezzo di quelli già usati in simili circostanze perché questa volta essi si rivelerebbero inefficaci catastrofici per gli ostaggi.” Il comunicato proseguiva dettando in modo preciso e attento i particolari dell’evasione “concordata”: il pulmino con i vetri oscurati nel cortile, i battistrada e le cautele contro i cecchini. E nel finale la minaccia esplicita verso gli ostaggi: dalle 9 del mattino successivo , dopo quattro ore, un’ esecuzione ogni mezz’ora. Si lasciava di fatto un’intera giornata per lo svolgersi della trattativa. Nel comunicato consegnato a Reviglio della Veneria risulta evidente che i detenuti, in particolare possiamo ritenere che l’estensore si stato Concu, già anima politica della sommossa di gennaio, cercavano con il comunicato di legare la loro azione individuale ad una prospettiva collettiva, uno delle indicazioni politiche che provenivano da Lotta Continua, ma avevano dovuto prendere atto che la dinamica riformatrice si era interrotta. In tal caso la parola d’ordine “ liberare tutti” non poteva che avere immediata applicazione, si tornava ad una forma di liberazione individuale che comunque in quegli anni era ampiamente approvata dal movimento. Sta già qui, nel rapporto fra la abituale pratica dell’evasione, con il suo inevitabile corollario della latitanza, prospettiva politica del gruppo e situazione effettiva del Ministro Zagari nel quadro generale del Governo, che si vede l’inevitabilità della divisione definitiva fra Lotta Continua e l’area politica che formerà i Nap. Nel comunicato viene inoltre precisato che i protagonisti dell’evasione non erano dilettanti, conoscevano tutti i trucchi, e che si era ben decisi a non farsi gabbare con manovre e cecchini e che l’inosservanza delle richiesta dei detenuti avrebbe condotto inevitabilmente ad una ritorsione spietata sugli ostaggi. Tristemente una previsione esatta di quanto sarebbe poi accaduto.

Dalla testimonianza successiva dell’unico detenuto sopravvissuto si venne a sapere che il tentativo era stata preparato con in 8 o 9 giorni e che le armi, due pistole, una mal funzionante e una in piena efficienza, erano state procurate da Di Bona attraverso i normali canali utilizzati per introdurre armi nelle carceri. Giovanbattista Lazagna nel suo libro più politico Carcere, repressione, lotta di classe pubblicato nel del 1975 , dopo la sua carcerazione preventiva, indagato per i rapporti con le BR, dedica una nota nella quale , in modo esplicito, ricorda a tutti, e senza tema di smentita, che nelle carceri italiane entro illegalmente tutto quel che è necessario ai detenuti purchè si abbiano contatti esterni affidabili e denaro. Su tale questione si è costruito, insieme ai mancati trasferimenti, il romanzo e le sue inevitabili derive di e trame nascoste, di provocazioni e, inevitabile e ripetitiva, della riproposizione della “ strategia della tensione” . Nella trappola dei “ misteri d’Italia”, con la conseguente abdicazione alla formulazione del giudizio politico e della ricerca storica sono caduti quasi tutti i commentatori, anche i più informati e attenti, della vicenda del carcere di Alessandria, spesso distratti, o meglio abbagliati, dalla concomitanza di due avvenimenti che si svolgevano in parallelo, e cioè il rapimento Sossi e il referendum sul divorzio. Eventi che in realtà hanno solo agito da copertura mediatica, come d’altronde era capitato con il famoso piano “ arancia meccanica“, che si rivelò poi essere un mero tentativo di allarmare l’opinione pubblica sul pericolo politico-criminale che avrebbe minacciato il Paese. Un ennesimo corollario della campagna “ d’ordine” che avrebbe voluto identificare nel ciclo delle lotte del 1968-69 soltanto una sommossa della canaglia. La lettura della sentenza e degli archivi restituiscono invece la singolarità della vicenda pur collocata in un quadro in trasformazione. I critici dell’operazione del Procuratore della Repubblica di Torino, in particolare i gruppi extraparlamentari presenti in Alessandria, ed estensori dell’opuscolo La strage, infatti inseriscono nella cronaca e nell’introduzione alcune domande che trascinano il testo, puntuale nella ricostruzione e nell’analisi dei comportamenti istituzionali, alcune domande che ritenevano irrisolte.

  • I mancati trasferimenti;
  • L’ingresso delle armi;
  • La composizione politica dei tre ( un rosso e due fascisti );
  • Il responsabile della morte del Dott. Gandolfi;
  • Il ruolo dell’unico sopravvissuto Levrero.

A distanza di più di cinquant’ anni nessuno di quei dubbi ha ancora una residua fondatezza, ora basta limitarsi a leggere la sentenza del 1979 pubblicata sulla più importante rivista giuridica italiana, e ora consultare i documenti d’archivio., ma a parziale giustificazione degli estensori dell’opuscolo e degli animatori nei mesi successivi del “Comitato 10 maggio”, c’è da considerare che fino al 1974 il 94% degli attentati aveva, secondo le carte di polizia, una evidente matrice fascista; era difficile superare per tutti gli attori della sinistra italiana il problema della comparsa della lotta armata e quindi dei “sedicenti” o della “provocazione”. A ciò bisogna aggiungere che il 1974 è l’anno di inizio di una nuova stagione stragista. Solo in una lettera su “Controinformazione” i alcuni detenuti politici che erano stati militanti della “XXII ottobre”, dei “Gap” e dei commontisti non misero in discussione la scelta politica di Conco, riconoscendoli altresì la responsabilità politica della presenza dei fascisti nel gruppo e comunque il diritto all’evasione.

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Solo per fornire anche un elemento quantitativo sull’episodio della tentata fuga dal carcere alessandrino si deve dare atto che ha costituito il più grave fatto di sangue della storia carceraria italiana, ancora più sanguinosa delle rivolte delle carceri nell’immediato dopoguerra, sommosse che furono soffocate con l’ausilio dell’esercito come quella ricordata come “Pasqua Rossa” a San Vittore. Nel 1974 trovarono la morte 7 persone (i due detenuti Cesare Concu e Di Bona Domenico, due guardie carcerarie Brigadiere Gennaro Cantiello e l’Appuntato Sebastiano Gaeta, l’assistente sociale Graziella Vassallo il professor Pier Luigi Campi ed il dottore Roberto Gandolfi ). Nel settembre dello stesso anno a questa lista di morti ammazzati si deve aggiunge la morte di Bruno Soci, un giovane detenuto di 25 anni, che venne colpito da una raffica di mitra mentre stava scavalcando il muro di cinta in un tentativo di evasione. Cadde, ferito mortalmente, all’esterno della cinta del carcere sotto gli occhi allibiti della sorella Marisa che lo attendeva fuori con l’ auto, presumibilmente, per facilitarne la fuga e l’allontanamento dalla città. Il legame diretto della morte di Soci con la strage del maggio fu immediatamente colta dai commentatori più avveduti. “ Il carcere di Alessandria tristemente noto come il più insanguinato d’Italia, è tornato al centro dell’attenzione in seguito ai due recenti episodi di cui si è occupata la cronaca: l’uccisione di un detenuto, raggiunto da una raffica di mitra sparate dagli agenti di custodia mentre si accingeva a superare il muro di cinta per evadere; e il tentativo [ … ] che avrebbero fatto alcuni di far pervenire una pistola ad un detenuto” Da Maurilio Guasco, Nel carcere di Alessandria, in “ Il Regno” 15 ottobre 1974, pp.446-449. L’autore sarà poi coinvolto con Luciano Raschio in un tentativo di mediazione e di scambio di ostaggi che avrebbe dovuto svolgersi nella giornata del 10 maggio, ma che non era altro, per il Procuratore Reviglio, una semplice schermatura per preparare l’intervento armato. Naturalmente né Guasco, né Raschio non erano consapevoli, così come l’assistente sociale Bandini che si offerse di essere scambiata con la Vassallo, e di essere solo parte di un offuscamento comunicativo il cui scopo era teso solo a guadagnare tempo nell’offrire una speranza e una prospettiva ai tre detenuti. C’erano già stati due morti ammazzati il giorno prima e, in realtà, si erano probabilmente superati tutti in confini di ogni possibile e ragionevole mediazione tra le parti. Dopo l’arrivo di Reviglio e di Della Chiesa si formano due aree, due catene di comando che non comunicavano e, soprattutto, non condividevano gli obiettivi e i metodi per ottenerli. Per il Procuratore di Torino , erede diretto di Giovanni Colli magistrato torinese che si era incaricato di demolire Lotta Continua di Torino rea del delitto di lesa FIAT, quel che contava in prima ed ultima istanza era l’affermazione fino in fondo, della ragione di Stato; nessun ostacolo poteva impedire l’affermazione di questa linea ed ogni altra via era considerata non solo errata, ma tendenzialmente complice del crimine. Orientamento diffuso nella magistratura italiana come si legge nel parere di Coco sull’ammissibilità dei ricorsi presentati in Procura dai cittadini di Alessandria. “ Anche le censure dei cittadini Guasco Maurilio ed altri, che potrebbero apparire più concrete e meglio articolate [ ricorso avvocato di Levrero, Nino Musa Sale ], risentono dell’indirizzo erroneo contro le autorità, in essi instillati da una propaganda male orientata e dissennatamente faziosa, ( la quale , tra l’altro può risolversi, sia pure indirettamente e inconsapevolmente, nell’incoraggiare il ripetersi di siffatte condotte criminose )”. Un’idea di Stato che aveva come immediata genealogia il codice Rocco, a che partiva da una cruda presa d’atto dello Stato come fonte unica della “dittatura “ ( limpidamente ancorate all’analisi di Carl Schmitt esposta ne Le categorie del politico e ne La dittatura, e cioè difesa extra legale di un ordine anche astrattamente minacciato ). Questa costellazione di poteri, che decise sempre senza esitazioni le diverse operazioni ebbe solo un aperto appoggio in città e nella folla che circondava il carcere. Ne erano protagonisti la sparuta pattuglia di fascisti che tentarono inutilmente di trasformare la gente assiepata in una folla pronta al linciaggio. Fallita questa manovra il Movimento sociale di Alessandria si dedicò alla ricerca dei colpevoli tra i militanti di Lotta Contina con una precisa segnalazione sul giornale di partito e in Parlamento; una segnalazione con nome, cognome e funzione di una giovane che nel frattempo si era già prudentemente allontanata da Alessandria. Tutto il resto delle forze politiche, degli amministratori locali- con il sindaco assoluto protagonista – , dei parlamentari, delle autorità di polizia locale e della magistratura del Tribunale di Alessandria tentarono con ogni mezzo di evitare l’intervento diretto dei carabinieri. In realtà quando venne inventata l’esplosione di due colpi di pistola al solo scopo di giustificate il primo intervento, detonazione che indicava l’intenzione dei sequestratori di dare inizio all’ uccisione sistematica degli ostaggi, i giochi orma erano chiusi. Di Bona aveva effettivamente sparato nel pomeriggio, ma solo per dare conto della esistenza di armi funzionanti, come già d’altronde aveva avvertito in modo silenzioso il Dott. Gandolfi e come la Vassallo, ormai ostaggio anch’ella, con il segno della “V” di vittoria aveva informato sul numero delle armi. Durante la prima irruzione furono uccisi per ritorsione i primi due ostaggi da Di Bona e nulla e nessuno avrebbe potuto più interrompere la tragica catena degli eventi.

Le conclusione del Tribunale di Genova forse riassumono meglio di chiunque i giudizi sugli avvenimenti.” a) dopo l’esperienza del giorno 9, che era costata la vita a due ostaggi, la decisione di ordinare un nuovo attacco contro i detenuti asserragliati con 16 persone in un vano di circa 9 metri quadrati, non poteva essere presa senza la previsione e la consapevolezza che un numero elevato di ostaggi sarebbe stato, in ogni caso, uccisa; b) per l’attuazione del primo tentativo di risolvere con un’azione di forza il giorno 9 maggio non si attese neppure l’avvicinarsi della scadenza dell’ultimatum [ i fantomatici due colpi di pistola ndr. ] posto dai tre rivoltosi ( le ore 9 del successivo giorno ); pur essendo evidente e notorio che il trascorrere del tempo, in tali circostanze, opera un progressivo logorio psico-fisico degli agenti che facilita ed aumenta la le probabilità di insuccesso di un eventuale intervento; c) l’eventuale predisposizione di un’azione di forza doveva essere attuata con cautela e modalità tali da non indurre minimamente in sospetto i rivoltosi; al contrario, il Dott. Buzio nel rapporto in atto riferisce che “… il Concu … era stato messo in sospetto da questi movimenti e si mostrava più diffidente. Anzitutto non si mostrava più come prima davanti al cancello, non veniva più i generi alimentari che erano stati preparati…; infine aveva cominciato a barricare la porta interna dell’infermeria.”; d) l’azione di forza , sia il giorno 9 che il giorno 10, fu condotta con modalità tali da escludere completamente non solo la sorpresa, ma da impedire un effettivo contatto fra le forze dell’ordine e i rivoltosi: il giorno 9, l’apertura del cancello adducente all’infermeria si protrasse per oltre 10 minuti, consentendo ai tre rivoltosi un facile ripiegamento nel vano “vuotatoio” ; sfondato il cancello la forza pubblica si fermò in corrispondenza della corsi precedentemente occupata senza proseguire verso il vano “vuotatoio”; il giorno 10, dopo il lancio di un ordigno lacrimogeno nella stanza occupata dai tre detenuti e dagli ostaggi, non vi fu alcun assalto da parte della forza pubblica, schierata in fondo alla corsia, tanto che Di Bona ebbe il tempo di sparare almeno 6 colpi di rivoltella su bersagli diversi ( e quindi di ricaricare l’arma a cinque colpi ), di raggiungere Concu in uno dei gabinetti, uccidere la Sig.a Vassallo e suicidarsi, prima che qualche agente facesse irruzione nella stanza; le deposizioni d’altra parte, hanno consentito che il lancio del lacrimogeno non fu seguito da una pronta irruzione della forza pubblica, ma che questa attese che gli insorti uscissero dal vano per effetto del gas; d) che, per tali considerazioni nella condotta di coloro che, in quelle particolari circostanze, decisero reiteratamente l’uso della forza pubblica, nonostante la prevedibilità delle conseguenze per l’incolumità dei civili e degli ostaggi militari, nonché nella condotta di coloro che organizzarono e diressero tali interventi con modalità di attuazione dissennate, possono ravvisarsi elementi di colpa penale che meritano un vaglio adeguato”.

Un giudizio negativo netto e che non lascia spazio ad alcuna altra considerazione o giustificazione. La conduzione delle giornate del 9 e 10 maggio era stata avventata e inefficace nei tempi e nelle modalità operative Soprattutto gravemente lesiva dei diritti degli ostaggi allorquando si rilevava che, dopo il lancio dei lacrimogeni e la faticosa apertura delle porte blindate, non vi fu irruzione delle forze dell’ordine, ma vennero lasciati gli ostaggi in balia dei detenuti il tempo necessario per ucciderne ancora tre. Concu infatti fu ferito mortalmente mentre correva verso i carabinieri; elemento di fatto che ci dice che polizia e carabinieri non erano entrati nel “vuotatoio” se non alla fine della mattanza e della resa di Levrero. L’indicazione della Corte di Genova di indagare sulla rilevanza penale di quanto accaduto non venne raccolta e il giudizio negativo sull’operato di Reviglio fu espresso solo in sede di risarcimento civile delle vittime. Come osservava la rivista “Quale giustizia” nel 1979 “ di Procuratore generale si muore”. Affermando che l’unico scampato alla strage fra i tre detenuti ribelli, Everardo Levrero, non sarebbe stato processato prima che Reveglio della Veneria fosse andato in pensione”. I dubbi, le critiche, il senso di frustrazione dovuta alla brutalità dell’intervento e all’emarginazione di ogni altra istituzione o partito si concretizzarono molto prima in un esposto al tribunale di Genova, il 10 febbraio 1975. Nell’esposto vennero riunite tutte le osservazione critiche alla gestione della crisi da parte del Procuratore generale. Tra le altre accuse di inefficacia, incapacità ed uso fraudolento di notizie false, quella più fragorosa e cioè di non aver salvaguardato la vita degli ostaggi. “Un’attenta analisi dei fatti [—] rende inevitabile la domanda: tra i due valori, incolumità degli ostaggi e riprestino dell’ordine pubblico, momentaneamente incompatibili, quale fu sacrificato dalle decisioni delle autorità?

Nel testo dell’esposto le osservazioni critiche avevano rigorosamente come base le fonti pubbliche e giornalistiche, anche perché le notizie che venivano da fonti interne non potevano essere citate e i testimoni diretti dovevano essere salvaguardati. Lotta Continua conservava dei rapporti politici con altri detenuti che, infatti, una volta usciti in carcere, si fermarono in Alessandria. L’estensore del testo era sicuramente l’avvocato Andrea Ferrari, prestigioso professionista alessandrino, che fra i firmatari era l’unico ad avere sufficiente cultura giuridica per cercar di collocare al centro del processo il ruolo della Procura. I firmatari dell’appello erano i più importanti uomini di cultura, dei partiti e del governo locale. Tutte le aree politiche presenti in città erano rappresentate: il mondo cattolico, i socialisti, i repubblicani, i democristiani, gli intellettuali che provenivano dal Psiup e i gruppi extraparlamentari. Salta agli occhi la mancata presenza dei comunisti, ma noi sappiamo che fin dall’ inizio il segretario di federazione aveva ricevuto una comunicazione telefonica da Pecchioli . Nella comunicazione Pecchioli dava disposizioni di non criticare Dalla Chiesa, considerato un ufficiale di orientamento positivo e che coltivava da tempo, in realtà dal dicembre 1973, rapporti organici con il Partito.

Il 14 febbraio 1975 il Comitato “10 maggio “ inviava alla stampa nazionale un documento nel quale si riepilogavano i temi della critica e della protesta contro i metodi utilizzati per soffocare l’evasione dei tre detenuti. Nel documento si prendeva atto con soddisfazione del radicamento del processo a Genova, sottraendolo al Tribunale di Torino, e si auspicava un giudizio rapido sui fatti di Alessandria. Il documento era sottoscritto da una settantina di firme raccolte a livello nazionale, ma sembra in modo caotico. La maggior parte dei firmatari erano magistrati come Giuseppe Branca e Luigi di Marco, avvocati, scrittori ( Franco Fortini ), giornalisti ( Camilla Cederna e Giuseppe Turani), avvocati e docenti universitari ( Luciano Canfora e Nicola Tranfaglia ). Il manifesto non venne mai pubblicato sugli organi di stampa ed ebbe scarso eco. Nulla di quanto che si riteneva ovvio nella larga parte della città riuscì a superare i suoi confini. Il risentimento della classe politica e degli intellettuali di Alessandria, nella sua accezione più ampia, nei confronti dell’azione delle autorità viene ribadito apertis verbis nel testo del manifesto. “Vada rifiutata la logica di anteporre l’onore e la ragione di Stato al rispetto della integrità e della vita umana; che in esempi come questo debba essere determinante il peso ed il giudizio delle forze locale democratiche e popolari e che il loro intervento attivo oggi debba servire a respingere eventuali prevaricazioni sull’istruttoria in corso come purtroppo altri esempi insegnano”. In poche righe si legge la frustrazione di chi in nessun modo era riuscito, almeno a rallentare, il corso degli eventi. Tutte le istituzioni locali, elettive e non, erano state sistematicamente escluse dalle decisioni operative. Un schiaffo terribile che la città intera decise di dimenticare, ma che rimane come il simbolo e il ricordo di una umiliazione collettiva. Il giovane magistrato Marcello Parola in quei terribili frangenti venne allontanato da Reviglio mentre esprimeva francamente la sua opinione avversa all’intervento, ( rivolgendosi a Buzio, procuratore Generale di Alessandria “ ma questo giovane procuratore non ha nulla da fare… ). “ Al momento avevamo in Italia 50 evasi, potevamo anche arrivare a 53.” Tale la dichiarazione esprime una valutazione realistica e svela che il vero motivo della strage non risiedeva nella salvezza degli ostaggi e delle legge, ma interamente nella intenzione di annientare il movimento dei detenuti ancora in grado di mettere in crisi un sistema carcerario che tutti sapevano di dover, prima o poi, almeno riformare ed intimidire i gruppi sovversivi che minacciavano la stabilità politica ed istituzionale. Se si scorrono le carte conservate negli archivi si nota con evidenza che magistrati e forze dell’ordine erano all’opera, principalmente e senza alcuna limitazione legale, per spazzare via i due movimenti che venivano classificati come i più pericolosi: detenuti e soldati. Con l’affermarsi della lotta armata negli anni successivi questo quadro di movimento sovversivo e/o riformista si esaurisce fino all’irrompere del Settantasette e della crisi Fiat nell’80. Da lì, da quegli avvenimenti possiamo collocare i confini cronologici del periodo al centro del quale sta la strage del carceri di Alessandria.

Bibliografia e fonti.

Le poche pagine che abbiamo presentato sono una anticipazione di un lavoro più ampio sulle vicende del maggio 1974 nel carcere di Alessandria. I primi preziosi materiali che hanno consentito la ripresa della riflessione e della ricerca sono il libro di controinchiesta La strage nel carcere. Alessandria, maggio 1974, a cura delle Sezioni di Alessandria di Avanguardia Operaia, Lotta Continua, PUDP, Torino CELUD, 1975 e l’archivio di Robertino Nani- responsabile della controinformazione di Lotta Continua – depositato nell’Archivio dell’ISRAL e gli atti del processo Levrero raccolti da Luca Ribuoli che li ha condivi si. A tale materiale preparatorio si è dovuto aggiungere una larga e approfondita ricerca archivistica nell’Archivio Centrale dello Stato, nell’Istituto Gramsci e all’archivio personale di Mario Zagari e del Procuratorie generale Giovanni Colli presso il Quirinale, nonché una consultazione ad ampio raggio sulla bibliografia di merito e di contesto. In occasione del cinquantennale della strage l’ISRAL e l’Associazione delle Assistenti sociali hanno tenuto un convegno e preparato una mostra, oggi disponibile presso l’ISRA.

Cesare Manganelli

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