L’Italia rischia di trovarsi impreparata di fronte alle sfide della transizione ecologica, con ripercussioni tanto sul piano ambientale quanto su quello economico. L’assenza di una Legge sul clima e di un Consiglio scientifico sul clima, un organo indipendente per la valutazione delle politiche ambientali, rende il Paese vulnerabile a decisioni miopi, dettate più da convenienze di breve termine che da una strategia lungimirante. Ma se l’Italia oggi si trova davanti a un bivio, esempi internazionali offrono lezioni negative preziose. Basta guardare a quanto sta accadendo negli Stati Uniti, che può aiutare a comprendere i rischi di una governance climatica debole e della censura sui risultati scientifici come base decisionale, esattamente l’opposto di quanto scritto nel Patto sul Futuro sottoscritto all’Onu a settembre scorso.
Nel giro di poche ore dall’insediamento, la “nuova” amministrazione Trump ha firmato il ritiro immediato degli Usa dall’Accordo di Parigi; dichiarato l’emergenza energetica nazionale – nonostante il Paese sia indipendente ed esportatore netto di combustibili fossili anche per via delle decisioni prese durante l’era Biden -, in modo da rendere possibili nuove trivellazioni in Alaska; bloccato le concessioni per l’eolico offshore. Ma la vera minaccia risiede nel sistematico smantellamento delle istituzioni scientifiche, e non solo in campo ambientale: dai tagli al personale della Noaa, l’agenzia responsabile delle previsioni climatiche, fino alla chiusura del team di supporto tecnico per il prossimo rapporto dell’Ipcc, l’organismo scientifico delle Nazioni Unite che conta 195 Paesi membri e offre le migliori analisi scientifiche in materia di crisi climatica. Una scelta definita da Johan Rockström, direttore del Potsdam institute for climate impact research, “irresponsabile e autodistruttiva“, che danneggerà anche la società statunitense.
Il messaggio è chiaro: eliminare la scienza dalle decisioni politiche per favorire un’agenda economica di corto respiro. Ne è l’esempio un’altra decisione, raccontata da Sergio Ferraris sull’ultimo numero di “L’Ecofuturo Magazine“: “Sfogliando questo album degli orrori ambientali, sul sito della Casa Bianca che è l’indice degli ordini esecutivi di Trump ci si imbatte in qualcosa di ancora più pericoloso. Si scioglie, infatti, il Gruppo di lavoro interagenzie sui costi sociali dei gas serra (Iwg) e si cancellano tutte le linee guida, istruzioni, raccomandazioni o documenti emessi dall’Iwg in quanto non più rappresentativi della politica governativa. Sul sito si legge che: ‘il calcolo del costo sociale del carbonio è caratterizzato da carenze logiche, una base debole nella scienza empirica, politicizzazione e l’assenza di un fondamento nella legislazione. Il suo abuso rallenta arbitrariamente le decisioni normative e, rendendo l’economia degli Stati Uniti non competitiva a livello internazionale, incoraggia un maggiore impatto umano sull’ambiente, offrendo ai produttori di energia stranieri meno efficienti una quota maggiore del mercato globale dell’energia e delle risorse naturali’. In queste poche righe c’è tutto il costrutto teorico dello smantellamento del Green new deal con la scusa della competitività del sistema Paese, privando oltretutto l’amministrazione federale di un indicatore come quello del costo sociale del carbonio, indispensabile per tarare al meglio le politiche climatiche valutandone i vantaggi o gli svantaggi sociali”.
Ma la lotta al sapere scientifico va ben oltre le questioni ambientali: infatti, l’amministrazione Trump ha tagliato miliardi di dollari destinati alla ricerca medica presso università e ospedali, esprimendo un forte rancore nei confronti del mondo accademico che viene da lontano, come dimostrano le parole utilizzate dal vicepresidente James David Vance durante la conferenza sul conservatorismo nazionale del 2021. Nel suo discorso intitolato “Le università sono il nemico“, Vance ha descritto le università americane come istituzioni ostili, dedite alla diffusione di idee “ridicole”, e ha sottolineato la necessità di attaccare aggressivamente l’istruzione superiore negli Stati Uniti. Vance ha inoltre affermato che le università insegnano che l’America è una nazione malvagia e razzista e formano futuri insegnanti per diffondere questa ideologia nelle scuole elementari e superiori. Tra le sue proposte principali troviamo, quindi, la riduzione dei finanziamenti federali alle università che promuovono idee progressiste, e la riforma delle università accusate di non offrire più un’educazione utile, ma solo un’ideologia dannosa per la società.
L’effetto di queste decisioni sta avendo ripercussioni anche su grandi aziende anglosassoni. Per fare un esempio, la compagnia energetica Bp (British/Beyond petroleum), tra le più grandi a livello globale, ha annunciato un aumento degli investimenti annuali in petrolio e gas come parte della strategia per migliorare i suoi rendimenti finanziari. Contestualmente, ha ridotto gli investimenti previsti nelle energie rinnovabili a una cifra compresa tra 1,5 e due miliardi di dollari all’anno. Un cambiamento che allontana l’azienda dall’impegno assunto nel 2020 di ridurre la produzione di petrolio e gas del 40% entro il 2030, ora rivisto a una riduzione del 25%. Analogamente, le grandi banche americane hanno abbandonato l’alleanza net zero – che punta alla neutralità carbonica – poco prima dell’insediamento dell’amministrazione Trump e molte altre hanno annunciato la chiusura dei programmi sulla diversità e contro le discriminazioni.
È all’interno di uno scenario in repentino mutamento che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha svelato il 26 febbraio il Clean industrial deal, di cui si è discusso durante l’ultima puntata di “Alta sostenibilità”, la rubrica ASviS in onda su Radio radicale. Tra i pilastri fondamentali del Piano vi sono l’accesso a un’energia a basso costo e la promozione della domanda di energia pulita, il perseguimento dell’economia circolare e del principio di giusta transizione, e una maggiore disponibilità di capitali per le imprese, in modo da incentivare la competitività del settore privato, in risposta alle richieste dell’industria sulla necessità di contare su più finanziamenti pubblici per sostenere la transizione energetica.
Tuttavia, una maggiore liquidità potrebbe non bastare per garantire uno sviluppo orientato alla sostenibilità, dato che le grandi imprese europee non sembrano aver sofferto di una carenza di capitali, bensì di una gestione delle risorse che ha privilegiato gli azionisti rispetto agli investimenti strategici per l’innovazione e la decarbonizzazione. Lo dimostra un’indagine dell’Ong olandese Somo, condotta con Friends of the Earth Europe, che evidenzia come le principali aziende impegnate nella transizione energetica abbiano già accesso a ingenti risorse finanziarie. Il problema risiede nell’impiego di questi fondi, in quanto invece di destinare una quota rilevante alla riconversione industriale, molte imprese hanno scelto di premiare i loro azionisti.
In particolare, l’analisi di 841 aziende quotate in borsa nei settori chiave della transizione energetica – dall’oil and gas all’automotive, dall’acciaio alla produzione di energia elettrica – rivela una chiara tendenza: tra il 2010 e il 2023, su un utile netto di 2,1mila miliardi di euro, ben 1,6mila miliardi sono stati distribuiti agli azionisti, pari al 75,3% dei profitti. Dopo il 2015, anno dell’Accordo di Parigi, la quota è addirittura aumentata, con 1,1mila miliardi redistribuiti attraverso dividendi e buyback (riacquisto di azioni). Tra le grandi multinazionali, il quadro è ancora più netto: Shell ha versato il 97% degli utili agli azionisti, TotalEnergies l’86%, Mercedes-Benz Group il 40% e Stellantis il 30%. Impressionanti sono anche i dati relativi a colossi del fossile come Eni (123%), Glencore (156%) e Bp (356%), di cui parlavamo prima. Si tratta di compagnie che hanno remunerato agli azionisti cifre persino superiori ai loro utili netti (il profitto di un’azienda dopo aver sottratto tutti i costi operativi, tasse comprese). Nel frattempo, i flussi di cassa in uscita per la realizzazione di investimenti in infrastrutture e innovazione sono calati dal 18,4% nel 2010 al 14,9% nel 2023.
Questo modello finanziario, sempre più orientato al breve termine e che premia la rendita rispetto alla trasformazione industriale, solleva interrogativi cruciali sul tipo di misure che deve prendere l’Europa per guidare la transizione. Se, infatti, la logica della massimizzazione del valore per gli azionisti continuasse a prevalere, quali strumenti si dovrebbero adottare per riallineare gli interessi privati con gli obiettivi pubblici?
In attesa che i governi diano una risposta convincente, che protegga i percorsi di decarbonizzazione dalle fluttuazioni delle preferenze politiche di breve termine, l’Italia dovrebbe approvare una Legge sul clima in analogia a quanto fatto a livello europeo. Infatti, come si vede proprio in questi giorni, pur modificando (non necessariamente in meglio) la legislazione relativa ai processi di decarbonizzazione e alla rendicontazione di sostenibilità, la Commissione conferma l’intenzione di raggiungere gli obiettivi fissati dalla legge climatica europea. L’Italia deve seguire un percorso analogo, così da disporre di un quadro normativo chiaro, con obiettivi definiti e strumenti di governance adeguati, in modo da assicurare la massima continuità delle politiche nel prossimo futuro. Per essere efficace, una Legge italiana sul clima dovrebbe prevedere, ad esempio, target vincolanti di neutralità climatica entro il 2050, con traguardi intermedi e budget settoriali per la riduzione delle emissioni. È inoltre cruciale una governance solida che coinvolga Governo, Parlamento e Regioni, allineandosi alla riforma che ha modificato gli articoli 9 e 41 della Costituzione. Infine, come sottolineato nello studio dell’ASviS e della Fondazione Ecco – presentato nel corso dell’evento “La Costituzione è cambiata: come cambiare l’Italia?”-, la mancanza di un Consiglio scientifico per il clima rappresenta una grave lacuna nell’attuale sistema decisionale. La proposta avanzata da Ecco e dall’ASviS è quella di costituire un ente con una struttura solida e operativa, dotata di funzioni di controllo, monitoraggio e valutazione. La possibilità di esprimere pareri vincolanti e di intervenire direttamente sulle misure di governo garantirebbe inoltre una maggiore responsabilità del potere politico e un’effettiva protezione degli interessi ambientali. Tuttavia, la semplice creazione di un ente non basta, in quanto la sua efficacia dipenderà dalla reale indipendenza dal potere esecutivo e dalla capacità di incidere sulle decisioni.
L’urgenza di basare le scelte politiche su solide evidenze scientifiche è stata ribadita da 22 presidenti di associazioni scientifiche italiane attraverso l’appello “Ascoltare la scienza” diffuso nei mesi scorsi. L’appello ricorda che “La scienza è l’unica fonte affidabile di informazione sulla realtà che ci circonda, sul funzionamento del mondo fisico, chimico, geologico e biologico; è essenziale nella formazione di ogni persona; è riconosciuta come la base dello sviluppo tecnologico e del miglioramento della qualità di vita delle persone”. L’inazione, avvertono inoltre gli esperti, avrà conseguenze gravi per l’ambiente e la società, come mostrato anche nel Rapporto di primavera 2024 dell’ASviS, a partire dalle fasce più vulnerabili della popolazione.
Ora più che mai, l’adozione di strumenti robusti ed efficaci potrebbe segnare il differenziale tra un futuro colmo di incertezze, danni e ritorni al passato, e uno fatto di sostenibilità. È il momento di investire nella scienza, di darle il peso che merita, e di fare della trasparenza e dell’integrità dei processi decisionali le colonne portanti della nostra politica. E non solo climatica.
Copertina: 123rf
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