È la Cassazione ad aver dichiarato che la Corte costituzionale con la sentenza n. 192 del 2024 ha disintegrato la legge sull’autonomia differenziata. Lo ha ribadito la stessa Consulta che proprio in ragione del «massiccio effetto demolitorio» ha espresso un giudizio importante.
Che non vi fossero più i presupposti per far svolgere il referendum abrogativo su una legge ormai privata di un chiaro oggetto.
È evidente, allora, che qualunque tentativo di riprodurre sotto mentite spoglie il progetto di autonomia sin qui perseguito – con particolare tenacia dall’attuale maggioranza, ma sin dal 2018 con le bozze di intesa sottoscritte dal Governo con le Regioni – è precluso. Solo una retorica disinvolta e poco rispettosa tanto della Costituzione quanto del giudice delle leggi può provocatoriamente affermare che basta cambiare alcuni termini per poter giungere allo stesso risultato (così esplicitamente Zaia, ma analogamente Calderoli).
IL VERO PROBLEMA che allora si pone è quale possa essere dopo la Consulta un’altra riforma del regionalismo che sia costituzionalmente orientata. A tal fine è utile chiarire anzitutto qual è la portata degli effetti «demolitori» dalla Consulta. Il progetto di trasferire blocchi di materie (le 23 indicate dall’articolo 116, III co.) non è più realizzabile. Le Regioni possono al più chiedere di volta in volta singole funzioni. Non è un problema di quantità dei trasferimenti, ma di qualità.
Ciò che viene meno è la visione che interpreta l’autonomia differenziata come mera «ripartizione di poteri», ovvero come richiesta da parte delle Regioni più ricche di appropriarsi di tutte le competenze possibili per poter gestire da sé i servizi sociali, senza alcuna specifica considerazione dei principi di solidarietà ed eguaglianza imposti dalla nostra Costituzione per la salvaguardia dei diritti di tutti i cittadini sull’intero territorio nazionale.
QUESTO PASSAGGIO – che sposta l’attenzione dai poteri ai diritti – viene confermato dal fatto che le richieste delle Regioni non possono essere dettate solo dal desiderio di gestire in proprio i relativi servizi, bensì devono fondarsi sul principio di sussidiarietà.
Un modello di distribuzione delle singole competenze tra Stato ed enti territoriali, dunque, non definito in astratto, che deve fondarsi invece su un giudizio di adeguatezza specifica, che, come avverte minacciosamente la Consulta, opera come «un ascensore» e dunque può anche «portare ad allocare la funzione, a seconda delle specifiche circostanze, ora verso il basso ora verso l’alto». Dunque, possono anche trasferirsi allo Stato funzioni ora decentrate, sottraendo competenze alle Regioni. In una direzione opposta rispetto a quella sin qui perseguita.
È sempre il rispetto dei diritti da garantire su tutto il territorio nazionale che impone – scrive ancora la Consulta – di cambiare di passo rispetto a quello sin qui tenuto in tema di Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP).
BASTA CON LE commissioni di esperti che individuano e definiscono autonomamente i criteri di trasferimento; basta con generiche deleghe parlamentari a fronte di precise determinazioni rimessi agli atti del Governo (Dpcm); basta con pregiudiziali e astratte materie “no-lep”.
È necessario che sia il Parlamento il protagonista, non potendosi limitare a fornire una delega generica per lasciare tutto il resto al governo e alla contrattazione con le Regioni. Ora è alle Camere che spetta definire principi e criteri specifici per ogni singolo trasferimento. Sui Lep in sostanza bisogna ricominciare da capo.
MA È POI PROPRIO l’organo legislativo che viene resuscitato dalla Consulta. Un Parlamento in catalessi da tempo e da tempo posto ai margini di ogni scelta politica fondamentale. Ora, in tema di autonomia differenziata deve riconquistare il suo ruolo centrale. Come dire: caro governo fatti da parte; occupati della buona amministrazione dello Stato centrale e della leale collaborazione con le autonomie territoriali (regionali, ma anche comunali e provinciali) e lascia le questioni strategiche relative alla forma di Stato regionale al titolare della rappresentanza nazionale, alle assemblee legislative. Una grande lezione di diritto costituzionale.
Questo è stato ribadito anche per sfatare un mito che si era trasformato in realtà quando con la legge Calderoli (n. 86 del 2024) si è costruito una procedura di approvazione delle intese che non lasciava alcuno spazio autonomo al Parlamento costretto a limitarsi ad approvare la contrattazione intervenuta tra la singola Regione e il Governo centrale. La Consulta ha ricordato invece che in sede di approvazione delle intese a maggioranza assoluta da parte delle Camere, queste sono titolari del potere di modificare quanto è loro sottoposto. Non possono limitarsi a “prendere o lasciare”, scrive incisivamente la Corte.
L’UNITÀ NAZIONALE poi è un principio inderogabile che, se letto in combinato disposto con i vincoli internazionali ed europei da noi contratti, porta ad una drastica riduzione delle funzioni trasferibili. Così, in particolare, per le materie trasversali: dal commercio all’energia, dall’ambiente alle grandi reti di trasporto, dall’ordinamento della concorrenza alle norme generali sull’istruzione. Nulla di tutto ciò può essere facilmente trasferibile, anzi esse appaiono «difficilmente giustificabili secondo il principio di sussidiarietà» e «potranno essere sottoposte ad uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale».
Dovrebbe essere chiaro a questo punto che si deve passare ad un diverso modello di regionalismo. Come scrive la Corte, illegittimo quello di carattere «duale», sin qui perseguito, andiamo alla ricerca di un modello «cooperativo». C’è poco da sperare: non sarà questo Governo l’artefice di un regionalismo costituzionalmente orientato. Spetta allora alle forze che si sono opposte andare alla ricerca dei nuovi equilibri tra Stato e Regioni in nome della solidarietà e dell’eguaglianza tra i cittadini. Una rivoluzione copernicana.
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