Nada Cella, mamma Soracco è fuori dal processo – Primocanale.it


Colpo di scena alla terza udienza del processo per il delitto di Nada Cella. Marisa Bacchioni, la madre del commercialista Marco Soracco, è di fatto fuori dal dibattimento: l’avvocato Andrea Vernazza ha depositato una perizia del medico legale Marco Lagazzi in cui viene evidenziato lo stato confusionale in cui versa l’anziana che qualche giorno fa ha compiuto 93 anni.

Il presidente della corte Massimo Cusatti si riserva di decidere su una eventuale sospensione per poi stralciarla dal dibattimento: “La Corte d’Assise – sottolinea in aula Cusatti – rilevato che dalla consulenza tecnica prodotta dall’avvocato Vernazza emergono elementi congruamente rappresentati riguardo alla condizione di attuale irreversibile incapacità della stessa Marisa Bacchioni a partecipare al procedimento, si riserva di provvedere riguardo all’istanza di sospensione ma non reputa necessaria alcuna ulteriore perizia”.

Il pubblico ministero, Gabriella Dotto e gli avvocati delle parti civili non si sono opposti e non hanno chiesto una nuova perizia. L’avvocato Vernazza ha spiegato come il quadro clinico di Marisa Bacchioni sia precipitata nelle scorse settimane quando è stata sottoposto a un ricovero a causa dello stato confusionale in cui versava Bacchioni è imputata e teste chiave per fare luce sul giallo

Bacchioni è coinvolta in più fatti importanti dell’indagine: lei era finita nell’occhio del ciclone per avere pulito macchie di sangue nelle scale e all’ingresso dello studio. Un gesto che era stato visto come tentativo di cancellare delle tracce, lei ha sempre detto di averlo fatto per pulire, visto  che è sempre stata ossessionata dalla pulizia. 

L’anziana, che è stata l’ex professoressa di liceo dell’avvocato Vernazza, aveva anche negato di avere confidato a un prete, padre Lorenzo Zamperin, i suoi “sospetti su una donna che aveva mire matrimoniali sul figlio” e “anche di avergli riferito di aver ricevuto da terzi il consiglio di mantenere il silenzio per il bene del figlio”. Agli investigatori non avrebbe neppure raccontato delle dichiarazioni della vicina di casa Liliana Lavagno “sulla persona sentita scappare sporca di sangue e vista a bordo di un motorino sotto lo studio”.

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Le testimonianze dei poliziotti che si erano occupati delle intercettazioni

Il primo testimone ascoltato all’avvio del processo dalla pm Dotto è Ennio Scarso, poliziotto della mobile e poi anche della Digos ora in pensione dopo una esperienza al reparto mobile, che nel 1996 si era occupato delle intercettazioni telefoniche. Il pm ha chiesto conto dell’intercettazione del 1996 della famiglia Signorini fra la mamma Egle e la figlia Lorenza Sanguineti. Scarso ricorda di avere intercettato quell’utenza, ma non quella nello specifico. Per questo gli viene concesso di leggere il suo verbale di allora. 

La difesa e il nodo delle trascrizioni

L’avvocato Gianni Roffo che difende Cecere solleva il problema sull’utilizzabilità delle trascrizioni del contenuto di alcune intercettazioni di bobine poi andate distrutte in un alluvione che aveva colpito il tribunale di Chiavari.

Scarso non ricorda, ma riconosce il verbale allora dattiloscritto con una macchina da scrivere Olivetti che avevano in dotazione allora. Il contenuto della telefonata – racconta Scarso – verte sul possibile orario in cui Soracco entra nello studio il giorno del delitto, 5 minuti dopo che l’altra figlia di Egle Sanguineti era uscita di casa, era il 23 maggio.

All’oggetto, spiega la pm, ci sono quattro telefonate intercettate registrate allora. Visto la difficoltà oggettiva nel ricordare il contenuto, giudice, pm e avvocato Roffo hanno deciso di acquisire delle intercettazioni, fra cui quella del 23 maggio ’96, trascritta dal teste Scarso, che per questo viene congedato. Poi le parti discutono se lo stesso metodo di acquisizione si può adottare per altre intercettazioni.

Il secondo teste è un altro ex poliziotto della omicidi, Andrea Tortorella, chiamato a parlare di un’altra trascrizione di un’intercettazione del 17 ottobre del 96, il pm Dotto ha chiesto se ricorda.

Il poliziotto ha ricordato che si prestava attenzione agli orari, poi sul contenuto il giudice ha chiesto che si potrebbe acquisire la trascrizione. Tortorella ricorda, il giudice Cusatti allora chiede di acquisire la trascrizione liberando il teste. L’avvocato Roffo chiede perché ci sono degli omissis, Tortorella ricorda che si mettevano quando si parlavano di fatti estranei all’indagine. 

Roffo mette in discussione l’utilizzo di una intercettazione in un convento fra uno sconosciuto e forse padre Anacleto, Cusatti risponde che il fatto che non si possono identificare le persone intercettate non è un criterio per escludere l’intercettazione come capita nelle tante indagini di “droga parlata”. Roffo chiede se la figlia di Egle Sanguineti quando è stata intercettata era indagata? Tortorella non ricorda.

Parla un altro agente dell’allora sezione omicidi

Poi parla un altro agente dell’allora sezione omicidi, Fabio Farinata, anche lui ora in pensione: “Ricordo che una persona era andata a parlare con un prete sulla vicenda, e confermo di avere indagato (come chiede il pm Dotto) anche sul bottone trovato sulla scena del delitto, contattando alcune fabbriche e facendo vedere la foto ai vari negozi ma siccome la produzione era su scala industriale non avevamo trovato nulla, non c’era la possibilità di inviare foto, andavamo di persona.

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L’avvocato Martini che difende Cecere: “Sa dire in che tipo di negozi effettuaste le ricerche?” “Credo in negozi di abbigliamento”, risponde Farinata.

L’avvocato Roffo: “Ha ricordo delle ricerche fatte? Posso produrre relazioni da lei scritte”

Cusatti, ricorda se ha accertato da quando veniva prodotto il bottone?

“Da più di dieci anni, e il marchio non era stato brevettato” risponde Farinata. Roffo ricorda che sulla relazione di allora il poliziotto aveva scritto che il fatto che non fosse brevettato ha agevolato la commercializzazione, uno dei più prodotti sul mercato. Farinata ha confermato. Il legale poi chiede se ricorda quante ditte aveva contattato, “circa una ventina”. 

Roffo poi rammenta di una relazione di un teste Luxardo, agente del commissariato chiavarese, che avrebbe trovato quei bottoni sul mercato di Chiavari.

Sentita la sorella dell’ex indagata Luciana Signorini

Poi parla la teste che allora abitava nel palazzo del delitto, Lorenza Signorini, figlia di Egle Sanguineti e sorella di Luciana, la ragazza disabile ora deceduta che era stata indagata e poi archiviata per il delitto perchè era stato trovato un suo scontrino nel cestino dello studio del delitto. Si scoprì poi che lo scontrino era stato trovato nelle scale dalla madre di Soracco che poi l’aveva gettato nel cestino.

In aula Lorenza Signorini dice: “Con Soracco e sua madre ci fu tensione, loro erano risentiti nei nostri confronti. Una volta li incontrai e mi rimproverarono per le cose che mia mamma aveva affermato sugli orari in cui Soracco era andato nello studio la mattina del delitto”.

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La mamma, Egle Sanguineti, infatti aveva detto di avere visto Soracco “scendere e andare in studio poco prima delle nove e comunque prima del solito”, mentre il commercialista ha sempre spostato in avanti l’orario del suo ingresso: prima alle 9.05, poi alle 9.10 e infine alle 9.12. 
Signorini, che all’epoca non abitava nel condominio del delitto di via Marsala ma lo frequentava perché andava a trovare la madre e lasciava il figlioletto di 11 mesi prima di andare a lavorare, ha anche detto più volte “non ricordo”.

Reticenza già manifestata dalla madre, nel 1996, e in parte dalla stessa testimone nel corso delle indagini riaperte nel 2021: “Avevamo paura di querele da parte della signora Bacchioni” aveva detto. E in aula, oggi, quando le è stato chiesto il motivo della reticenza, ha spiegato che “sicuramente ha inciso la soggezione che la mia famiglia, di origini modeste, aveva nei confronti dei Soracco. Il padre era anche stato nella Dc. E quindi magari all’inizio non si è sentita di parlare. Ma sono pensieri miei”.
Tra la famiglia Signorini e Soracco, subito dopo il delitto, i rapporti secondo gli investigatori erano diventati tesi, tanto che il giudice Cusatti dice che sembrava la Guerra dei Roses. “Era arrivata una voce – ha detto Lorenza – che fosse stato mio padre a uccidere Nada. Per fortuna dimostrò che era a lavorare quella mattina. Ma la mia famiglia era stata tartassata”. 

Al pm Dotto che gli chiede se conosce Anna Lucia Cecere, Lorenza risponde: “E’ una persona che ho già visto ma non ricordo”.

 

La prossima udienza del processo è fissata per giovedì prossimo.

La cronistoria

Mentre i carabinieri trovavano in casa di Anna Lucia Cecere bottoni uguali a quello rinvenuto sporco di sangue sotto il corpo di Nada i poliziotti mai informati dell’importante ritrovamento giravano disperatamente l’Italia a trovare il luogo dove potevano scovare bottoni uguali a quello.

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Questo paradosso su cui gira la beffa della lunga e fallimentare indagine sull’omicidio di Nada Cella, ammazzata nel 1996 a Chiavari, sarà al centro dell’udienza, la terza, del processo per il delitto, un cold case riaperto nel 2021 dalla polizia che grazie alla criminologa Antonella Delfino Pesce e che vede indagata la donna, Anna Lucia Cecere, già allora indagata e sbrigativamente archiviata dai carabinieri e pm Gebbia senza dire nulla alla polizia. Alla sbarra indagati per favoreggiamento della presunta killer anche Marco Soracco (presente in aula), titolare dello studio teatro del delitto e sua madre Marisa Bacchioni. In aula si parlerà anche delle registrazioni delle telefonate anonime giunte a casa del commercialista in cui veniva accusata Cecere, anche queste allora colpevolmente snobbate.

Oggi in aula sfileranno fra gli altri una serie di detective di allora, della mobile, Farinata, Tortorella, del commissariato, il vice dirigente Navarra, e pure sbirri della nuova indagine. I primi tutti in pensione, a dimostrazione di quanto tempo è passato dal giorno del delitto, dal 6 maggio di quasi trent’anni fa, tempo che rende tutto molto complicato. Fra i testi atteso anche il testimone oculare che disse di avere visto Cecere davanti al palazzo del delitto sporca di sangue. La donna si è detta sempre innocente: “Ero a lavorarea Santa Margherita dove facevo le pulizie”, sbandierando un contratto di lavoro che attesta questo. Trent’anni dopo, per lei, è tutto più semplice.

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