Kim Wilde – Closer :: Le Recensioni di OndaRock


I’m accepting myself once again
embracing myself once again
(“Savasana”)

Se dovessimo usare una sola parola per raccontare il nuovo album di Kim Wilde, “Closer”, quella sarebbe sicuramente “accettazione”: di sé stessi, della vita, del tempo che passa. D’altronde, lo afferma lei stessa più volte nel ritornello di “Savasana”, l’ultima canzone in scaletta che richiama nel nome una delle posizioni basilari dello yoga. Per la bionda cantante di Chiswick, oggi sessantaquattrenne, si tratta della quindicesima fatica in studio e si riallaccia idealmente al suo disco bestseller del 1988 “Close”, di cui riprende, oltre al titolo, anche l’iconica posa dell’immagine di copertina, in cui viene immortalata in primo piano con le braccia incrociate sul viso. Stavolta però la fotografia, firmata da Sean J. Vincent, è in bianco e nero e sotto gli occhi affiora pure qualche ruga, quasi a voler smascherare l’inesorabile scorrere della clessidra.

Registrato ai Doghouse Studios nell’ Hertfordshire con l’aiuto del fratello Ricky Wilde, che la segue da sempre come un’ombra e qui suona anche chitarra e tastiere oltre a essere coautore dei testi, “Closer” interrompe un silenzio che durava da circa sette anni, cioè da “Here Come The Aliens” del 2018 (se si eccettuano la relativa appendice dal vivo “Aliens Live” e le due compilation “Pop Don’t Stop – The Greatest Hits” del 2021 e “Love Blonde – The Rak Years 1981-1983” del 2024). A differenza del precedente Lp, che era stato ispirato da misteriose apparizioni Ufo cui Kim aveva assistito di persona in giardino, per “Closer” non è scattata invece alcuna particolare molla, se non la semplice voglia di tornare in pista.
I fan di vecchia data ricorderanno di sicuro come la cantante, nel corso della carriera, sia stata capace di spaziare tra irruenza disco-punk (basti pensare a “Kids In America” e “Chequered Love”, in stile Toyah, Debbie Harry o Hazel O’Connor), synth-pop alla moda (una su tutte “Cambodia”, si trova su “Select” del 1982) e persino contaminazioni swing-jazz (ad esempio, “Love Blonde”, che si può ascoltare su “Catch As Catch Can” del 1983). Poi arrivò la definitiva svolta da hit parade con “Another Step” (memorabile la sua interpretazione di “You Keep Me Hangin’ On” delle Supremes, che nel 1986 restò per una settimana in vetta negli Stati Uniti) e soprattutto con il summenzionato “Close”, appunto, zeppo di successoni del calibro di “You Came”, “Never Trust A Stranger”, “Four Letter Word” e “Hey Mister Heartache”, che valsero l’illustre paragone con Madonna e servirono a consacrare Kim Wilde nell’olimpo del pop in un momento in cui le sue quotazioni stavano peraltro già conoscendo una vertiginosa ascesa, grazie al ruolo di opening act sostenuto fino a poche settimane addietro in alcune tappe europee del tour di “Bad” di Michael Jackson.

Adesso siamo lontanissimi, per diverse ragioni, dal clamore degli anni Ottanta, ma “Closer” riesce a riportarne in auge, per fortuna, gli aspetti migliori, citandoli di continuo e rigirandoli da ogni possibile angolatura senza mai risultare sguaiato o démodé. La produzione è ovunque moderna e pulita, e ciò che sa di passato non è nostalgia ma solo un doveroso tributo al proprio Dna. Dagli accordi iniziali del brano d’apertura “Midnight Train” sembra che stia per partire “Such A Shame” dei Talk Talk, poi si sterza verso un euro-rock accattivante. Sulla stessa falsariga “Trail Of Destruction”, che nello scorso mese di agosto aveva fatto da singolo di lancio e, stando alle intenzioni, dovrebbe costituire il sequel di “Stone”, contenuta anch’essa in “Close”: sono entrambe canzoni di protesta contro i danni che l’uomo va arrecando al pianeta, come sentenzia il videoclip dove sui light-screen alle spalle della cantante si alternano parole di denuncia a caratteri cubitali (“conspire”, “fake news”, “justice”, “global warming” ecc.), mentre il finale, più di targa Ice Mc, fa il verso alla dance anni Novanta.
“Scorpio” ricalca nella melodia il suo primissimo cavallo di battaglia “Kids In America”, quindi le atmosfere si fanno mature e sognanti in “Lighthouse” (che per il ritornello prende in prestito a pie’ pari una strofa di “Solstice”, da “Here Come The Aliens”: “Lighthouse shine for me/ I’ve been drifting so far/ guide me back from the sea/ to the place I was before/ I’ve been losing my way/ now I can’t see the stars/anymore”). Un capitolo a parte merita “Sorrow Replaced”, collaborazione di lusso con Midge Ure: l’ex-cantante degli Ultravox comincia in sordina, poi il pathos aumenta via via e l’intrigante scambio di timbri esplode in un refrain che non esce più dalla testa (se non conquista subito il consiglio è di ascoltarla più volte).

Un po’ rinunciataria, invece, “Hourglass Human”, cantata in coppia con la nipote Scarlett Wilde, figlia di Ricky, che per la verità offre una performance vocale di tutto rispetto, ma il salto generazionale tra le parti non gioca a favore. “Stones And Bones” è l’altro pezzo liricamente impegnato dell’album e prende spunto da una poesia d’amore che il politico e attivista russo Navalnij aveva indirizzato dal carcere a sua moglie Julia; “Rocket To The Moon”, invece, è un numero electro-clash fresco e spigliato à-la Goldfrapp; mentre “Love Is Love” pompa synth e bassi di gusto candidandosi a mini-inno sull’amore.
In chiusura, torniamo lì dove avevamo cominciato questa recensione, a quell’elegante e malinconica “Savasana” che ciondola in dolce equilibrio tra post-rock rilassato, ambient e tentazioni trip-hop.

“Closer” nel complesso non può dirsi un capolavoro, ma è di certo il miglior album di Kim Wilde da trent’anni a questa parte, a conferma che nell’era dell’intelligenza artificiale anche l’istinto naturale di un’icona degli anni Ottanta può rappresentare un’alternativa piacevole.

08/03/2025

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