“Il mio amico di Gaza mi dice sempre una cosa: che vuole andarsene. Ma per il mondo, i palestinesi fuori dai campi profughi non servono a niente”
Di Jennifer Love
Ho un amico a Gaza. Lo chiameremo Khalil.
Ci siamo incontrati on-line poco dopo l’inizio della guerra, un’improbabile amicizia nata dalla curiosità e dalla comune speranza di stabilità nella regione.
Quando gli ho inviato una bozza di questo articolo, la sua risposta è stata: “Questo articolo esprime ogni parola che è dentro di me”.
Ci scriviamo quasi ogni giorno da quando è scoppiata la guerra. Soprattutto, mi dice una cosa: che vuole andarsene.
Ma non c’è via d’uscita: niente confini aperti, niente visti, niente passaggi sicuri. Come innumerevoli altri, è intrappolato in un crudele paradosso: la gente dibatte sulla moralità o meno della guerra, ma ben pochi sembrano credere o preoccuparsi del fatto che palestinesi come lui non vedono l’ora di andarsene.
Molti nel mondo arabo e nel mondo in generale, ma alcuni anche in Israele, pensano che i palestinesi debbano rimanere a Gaza per sempre, vuoi per una questione di principio nazionalista, vuoi per strategia politica.
Il mondo scodella tonnellate di simpatia per la causa palestinese, ma rifiuta al popolo palestinese la possibilità di trovare rifugio in qualsiasi altra parte del mondo.
Quanti di costoro sceglierebbero di restare se fossero le loro famiglie ad essere sfollate, se i loro quartieri e i loro mezzi di sostentamento fossero distrutti?
Non fingo di credere che un reinsediamento degli abitanti di Gaza sarebbe cosa semplice. Ma per i moderati fra loro che desiderano vivere in pace, l’opportunità di andarsene al più presto è un sogno.
Manifestazione propal. Sul cartello: “Intifada fino alla vittoria”. Jennifer Love: La vita dei palestinesi non è al servizio di un’idea romanticizzata di “resistenza” o della narrazione degli attivisti, ma nessuno si preoccupa di chiedere: cosa vogliono i Khalil di Gaza?
Le discussioni sul consentire loro di trasferirsi volontariamente da Gaza vengono seguite con grande attenzione e speranza.
Immagino che verrebbe data priorità a coloro che hanno persone disposte ad accoglierli. Se è così, mia moglie e io siamo disposte a ospitare Khalil, sua moglie e le loro due figlie nella nostra casa a Fort Lauderdale, se solo fosse possibile. Se c’è una procedura, la seguiremo. Se c’è un’istanza da firmare, la firmeremo. Se c’è da pagare qualcosa per inoltrare la domanda, la pagheremo.
Ma in questo momento non c’è nessun sistema, nessuna via di fuga per persone come Khalil.
Khalil non chiede elemosina o pietà. Chiede solo lo stesso diritto fondamentale che ogni essere umano dovrebbe avere: il diritto di muoversi per cercare una vita migliore per le proprie figlie.
E mentre il mondo dibatte sull’origine della loro sofferenza, nessuno si preoccupa di chiedere: cosa vogliono i Khalil di Gaza?
Come ha scritto di recente l’attivista Yehuda Teitelbaum su X, “i palestinesi sono stati ridotti a un concetto. Agli occhi della sinistra occidentale non sono persone vere, dotate di una propria capacità di decidere e agire”.
Khalil non è un militante e non vuole avere niente a che fare con la politica.
È semplicemente un uomo che vuole portare la sua famiglia in salvo, per costruirsi una nuova vita. Ma al momento in cui scrivo, da Gaza non possono uscire attraverso l’Egitto nemmeno i ricchi o i malati.
Paesi di tutto il mondo che si vantano d’essere campioni dei diritti umani non hanno ancora offerto un rifugio decente. Vi sono 22 nazioni arabe e nessuna di loro ha aperto le porte alla gente di Gaza. Offrono molta roboante retorica, ma si rifiutano di offrire asilo.
Quindi dobbiamo chiederci: perché?
Perché il mondo finge solidarietà verso i palestinesi, mentre insiste sul fatto che rimangano apolidi, sfollati, impossibilitati? Perché è accettabile che i profughi ucraini, siriani o sudanesi fuggano dalle zone di guerra e, se lo desiderano, si costruiscano una vita altrove, ma i palestinesi no?
La risposta è scomoda ma innegabile: i palestinesi fuori dai “campi profughi” di Gaza (e dagli elenchi dell’Unrwa) perdono tutto il loro valore.
La loro sofferenza è una merce commercializzata da politici, organizzazioni e attivisti che non sono affatto interessati al loro reale benessere.
Di recente il giornalista palestinese Majdi Abd Al-Wahhab ha condiviso un articolo (in arabo) che non ha ricevuto alcuna attenzione in Occidente:
“Noi palestinesi abbiamo conosciuto uccisioni e massacri, sfollamenti ed esilio, guerre e fughe. I disastri che abbiamo subìto sono stati causati dai nostri stessi fratelli, dalla nostra stessa gente che pensava che cavalcare le onde della nazionalità, del nazionalismo, delle organizzazioni e della religione fosse il modo per raggiungere la patria tanto agognata. Ci vogliono profughi e mendicanti mentre loro, i padroni, continuano a godersi i piaceri della vita a Vienna e i loro figli vivono a Dubai, Amman e Parigi, mentre i nostri figli vivono nei campi profughi”.
Palestinesi come Khalil non devono la loro vita a un’idea romanticizzata di “resistenza”. Non è che esistono per servire Hamas, o Fatah, o la narrazione degli attivisti.
Devono poter esercitare il diritto di andarsene, di vivere, di costruire un futuro per i loro figli.
Come ha scritto Teitelbaum nel suo post su X, “l’intera narrazione della ‘prigione a cielo aperto’, del ‘genocidio’, dell”apartheid’ crolla tutta intera quando ci si rende conto che i palestinesi non sono ostaggi di Israele, ma ostaggi di un movimento che tratta la loro misera condizione come una necessità politica”.
E questa è la verità che nessuno ama dire ad alta voce.
Se Khalil e la sua famiglia rimarranno a Gaza, non sarà perché hanno scelto di restare. Sarà perché il mondo preferisce vederli soffrire nello squallore in nome della loro “Palestina libera”.
(Da: Times of Israel, israele.net, 23.2.25)
Scrive Eugene Kontorovich sul Wall Street Journal: (…) L’offerta di Trump di consentire agli abitanti di Gaza di andarsene è stata criticata (fra l’altro) come una “pulizia etnica” in violazione del diritto internazionale. Ma Trump non ha mai suggerito un allontanamento violento o forzato. Piuttosto, mira a garantire che gli abitanti di Gaza siano liberi di andarsene, cosa che attualmente non sono.
L’Egitto e Hamas preservano, insieme, un sistema violento che tratta gli abitanti di Gaza come servi della gleba legati alla terra, per fungere da scudi umani.
Ciò viola il diritto internazionale, in particolare gli obblighi dell’Egitto ai sensi dei trattati sui rifugiati.
Trump cerca di togliere una cortina di ferro da Gaza e permettere alla gente di sfuggire dalla tirannia e dalla distruzione.
Nessuno ha mai sostenuto che la campagna per il diritto di emigrare degli ebrei sovietici fosse una pulizia etnica. Né la comunità internazionale ha considerato una pulizia etnica l’espulsione forzata dell’intera popolazione ebraica di Gaza ad opera dell’Egitto nel 1948, e di nuovo ad opera di Israele nel 2005.
Gli stessi piani di pace comunemente accettati fondati sulla “soluzione a due stati” si basano su un’espulsione di massa degli ebrei da Giudea e Samaria.
Un sondaggio condotto prima della guerra mostrava che il 44% dei giovani di Gaza è interessato a emigrare, una percentuale probabilmente adesso più elevata.
Prima della guerra il settore pubblico era il più grande datore di lavoro, rappresentando il 21% della forza lavoro, seguito dal lavoro in Israele e dai posti di lavoro nell’Unrwa, l’agenzia Onu per i profughi palestinesi.
Il settore pubblico e l’Unrwa sono finanziati in gran parte da paesi stranieri e gestiti da Hamas. Né quei posti di lavoro né quelli in Israele torneranno.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, prima della guerra l’80% della popolazione di Gaza dipendeva dai sussidi internazionali. In pratica, venivano pagati per rimanere a Gaza.
Trump afferma, a ragione, che Gaza non è sostenibile senza continuare con i sussidi esterni. Il diritto internazionale non impedisce agli attori esterni di fornire tali sussidi, ma non proibisce nemmeno di rimuoverli e offrire invece generose condizioni per il reinsediamento altrove.
(Da: Wall Street Journal, 3.3.25)
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