La politica oppressiva del mio popolo


Nathan Levi – medico pediatra e cooperante in ambito sanitario internazionale, italiano nato a Tel Aviv nel 1945 – è autore del romanzo La Metamorfosi dei Papaveri (Editrice Tresogni 2021), un thriller politico ambientato nel contesto del conflitto israelo-palestinese (menzione speciale del concorso di Microeditoria di Chiari nel 2023). L’intervista è curata da Giordano Cavallari.

  • Dottor Nathan, come lei ha scritto nella nota introduttiva al libro, suo zio è stato un convinto sionista della prima ora, mentre i suoi genitori lo hanno seguito a causa delle leggi razziali italiane. Lei si è detto fiero di essere israeliano. Vuole ricordare le vicende dei suoi familiari e quindi la sua vicenda personale?

Entrambi i miei genitori, ebrei, sono nati a Trieste. Mio padre, a dire il vero, è nato nel campo di concentramento austriaco di Lienz, dove i suoi genitori erano stati internati durante la Grande Guerra in quanto giovani triestini sospetti di irredentismo. I miei avi provenivano dalla Spagna, da Turchia e Grecia.

A seguito delle leggi razziali, mio padre dovette lasciare l’università, dove studiava economia e commercio, e dovette lasciare pure il posto di lavoro quale impiegato del Banco di Roma. La II Guerra Mondiale si stava avvicinando, in Germania gli ebrei erano perseguitati e il pericolo era incombente, per cui i miei genitori, con mia sorella Ester, una lattante di pochi mesi, hanno deciso di fuggire prendendo una nave clandestina diretta in Palestina, verso la fine del 1939. Io sono perciò nato a Tel Aviv nel 1945, tre anni prima della nascita dello Stato di Israele.

Partendo dall’Italia senza soldi, la vita dei miei genitori è stata molto dura: quella di mio padre è stata cadenzata da numerosi cambiamenti di lavoro, prima di fatica (muratore, stiratore, pescatore), poi di tipo impiegatizio. Nel 1950 si sono trasferiti a Gerusalemme, dove mio padre ha fatto il tagliatore di diamanti. Pur essendo laici, la povertà li ha costretti a prendere un modesto alloggio in via Mea Shearim, il centro del rione degli ebrei ultraortodossi.

Io ho frequentato una scuola laica al centro della città, dove ho studiato fino alla prima media, sino a quando i miei, spinti anche dai nonni paterni rimasti a Trieste – miracolosamente sfuggiti all’Olocausto -, sono ritornati nella loro città natale. Il cambiamento per me è stato devastante.

  • Quale formazione ha ricevuto in Israele nella sua infanzia e sino alle soglie della adolescenza?

Una formazione laica, ma con un’intensa componente patriottica. Anche noi, piccoli, sentivamo nel profondo la straordinarietà dell’esperienza che stavamo vivendo, quali testimoni e partecipi attivi della nascita del nostro Stato, dopo due millenni di persecuzioni in Europa, culminati nella Shoà.

In Israele ho assimilato lo spirito, l’energia, l’entusiasmo e gli ideali legati alla nascita del nuovo Stato dei “figli di Abramo”.

  • Nathan, lei oggi si sente ebreo?

Non sono un ebreo osservante, ma continuo a sentirmi parte della storia accidentata del popolo a cui appartengo.

Essere ebrei e Stato di Israele
  • Qual è il suo legame con gli ebrei d’Israele e con lo Stato d’Israele?  

Fino ai trent’anni mi sono sentito un israeliano in attesa del ritorno nel mio amato Paese natale. In seguito, le vicende familiari e di lavoro mi hanno costretto a restare nella diaspora. La sofferenza per lo sradicamento subito è stata in seguito compensata dai cambiamenti – purtroppo negativi – vissuti dai miei compatrioti.

Durante la mia infanzia e la prima età adulta, era viva in me la speranza, direi la convinzione, della maggior parte degli israeliani, ossia che un giorno Israele avrebbe fatto la pace con i Paesi arabi circostanti e risolto, con giustizia, il problema dei palestinesi.

Israele è nato dalla tragedia dell’Olocausto. Per un bimbo scoprire la crudeltà umana portata al limite estremo è stato devastante. Nella mia mente si è radicata sempre più l’idea riparatrice che Israele rappresentava il luogo sicuro degli ebrei, e pure un faro di civiltà e di giustizia. E la prima ingiustizia da riparare era verso i palestinesi costretti ad abbandonare le loro case e a vestire da profughi senza futuro.

  • Come è cambiata la demografia e forse la cultura di Israele da quando lei ha lasciato il Paese?

Negli ultimi decenni Israele ha subito un grande cambiamento demografico dovuto in prevalenza alle immigrazioni massicce degli ebrei provenienti dai Paesi arabi e poi dall’ex Unione Sovietica e dai suoi Paesi satellite: cambiamento che ha portato alla crescita della componente religiosa e ultrareligiosa, peraltro molto prolifica; da cui il susseguirsi, quasi ininterrotto, di governi di una destra sempre più estrema, convinta della volontà di Adonaj che il popolo prediletto si debba riprendere i confini dell’antico Israele biblico.

  • Lei si definiva “pacifista moderato”: cosa voleva dire, allora, quando ha scritto il libro nel 2021? Ed ora dopo il 7 ottobre 2023?  

Sono “pacifista moderato” in quanto accetto l’idea che un popolo aggredito da nemici che intendono “buttarlo nel mare” ha il diritto-dovere di difendersi. La ferocia di Hamas – il 7 ottobre – giustificava una reazione decisa, ma non così sproporzionata da lambire il confine del “genocidio”.

È naufragato il mio sogno di pace, ma non è mutata la mia posizione generale verso il conflitto israelo-palestinese.

Una narrazione per la pace
  • Qual è la trama del suo romanzo?

È una trama tipo thriller politico-internazionale: ho inteso dare voce all’ipotesi – appena fantascientifica – che la pace sia raggiungibile stimolando l’empatia dei governanti israeliani nei confronti dei palestinesi.

Il romanzo racconta la storia di un neuroscienziato israeliano e della sua compagna, esperta in biochimica del cervello, che scoprono una sostanza in grado di modificare l’empatia dei governanti israeliani nei confronti dei palestinesi. Il racconto – fatto di suspense e giocato su un sofferto sentimento d’amore tra un israeliano ed una palestinese – si snoda tra servizi segreti, gruppi pacifisti, complotti palestinesi. Trattandosi di un giallo non rivelo, ovviamente, il finale.

È appena fantascientifico, perché la scienza ha ben dimostrato che la somministrazione dell’ormone ossitocina può stimolare davvero l’empatia verso i propri nemici.

Si tratta quindi di una forte denuncia della politica oppressiva del mio popolo nei confronti del popolo palestinese: un tema, ovviamente, attualissimo, sempre più drammatico, che credo contenga tutti gli ingredienti per interessare tanti lettori: in particolare i palestinesi, insieme a tutti coloro che sostengono la loro causa, che amano la pace e che intendono impegnarsi in prima persona per un mondo più giusto e solidale.

Si può definire un romanzo filopalestinese, tanto più interessante perché scritto da un ebreo nato in Israele. Ma le modeste risorse promozionali dell’editore – editore che ha partecipato con grande professionalità all’editing ed è profondamente partecipe del messaggio – non hanno permesso di raggiungere quel pubblico ampio che avrei desiderato.

  • Dopo il 7 ottobre, riscriverebbe allo stesso modo il suo romanzo?  

Lo riscriverei senz’altro senza cambiarne una virgola, anche se oggi la pace è diventata, ancor più, una chimera rispetto a prima.

Il romanzo risponde ad un mio bisogno profondo di scuotere le coscienze sulla tragedia del popolo palestinese: effetto che ritengo utile non solo per la causa che sostiene, ma anche per lo stesso Israele, essendo convinto che la via per la pace in quella terra insanguinata passa necessariamente attraverso la creazione dello Stato di Palestina, in pace e in collaborazione con lo Stato d’Israele. Sono altresì convinto che, altrimenti, il mio Paese natale proseguirà un cammino inesorabile verso il suicidio.

  • Da ebreo della diaspora che significato hanno per lei termini – spesso tra loro confusi – quali antigiudaismo, antisemitismo, antisionismo?

L’antisemitismo è un’ideologia razzista che considera gli ebrei popolo inferiore, a cui addebitare tutti i mali del mondo. Negli ultimi due secoli è stata alimentata da vari governi europei per deviare l’attenzione dalle proprie miserie, utilizzando la popolazione ebraica come facile “capro espiatorio” di tutti i mali; un bersaglio inerme su cui sfogare la rabbia e la voglia di riscatto dei propri sudditi. Il nazifascismo ha rappresentato il culmine di questa orrenda ideologia.

Il Sionismo e la nascita dello Stato di Israele sono frutto, legittimo, delle persecuzioni antisemite. Ha causato la tragedia di un altro popolo, a cui è doveroso porre un rimedio almeno parziale, anche se tardivo.

Ma l’accusa di antisemitismo è diventata negli ultimi decenni anche una cosa del tutto diversa e sbagliata. Paradossalmente, chiunque critichi la politica israeliana verso i palestinesi deve difendersi dall’accusa di antisemitismo. Si tratta di una correlazione assurda nata e diffusa dai governi israeliani negli anni Novanta: una distorsione esportata nel mondo dalla destra israeliana, con cui il governo israeliano ha voluto creare un comodo paravento, uno scudo – che fa facile presa su tanti – contro qualsiasi opposizione alle leggi vessatorie nei confronti dei palestinesi.

Andando sul personale, mi si conceda una riflessione: è mai possibile che io, ebreo, per di più nato in Israele, in quanto contrario alla politica del mio amato Paese natale, sia preso per antisemita? Posso essere davvero anti-me stesso?

Abraham Gutman, capo-redattore ebreo del The Philadelphia Inquirer, ha scritto: «Lungi dall’essere offensive, le critiche al governo israeliano dovrebbero essere considerate come un atto d’amore, che potrebbe rendere ciascuno più libero e sicuro. La libertà e la sicurezza degli ebrei israeliani e quella dei cristiani e dei musulmani palestinesi non si escludono a vicenda – anzi, vengono assicurate da una pacifica e giusta convivenza».

Israele e la religione
  • Che giudizio dà della religione in Israele oggi?

In Israele – e non solo – la religione è un elemento fortemente aggregante. Quella ebraica, come quella musulmana, permea la quotidianità degli ebrei osservanti. Inevitabilmente, condiziona anche le leggi che regolano la convivenza dei cittadini. Ed è questo, a mio giudizio, il confine tra il giusto e l’ingiusto. Intendo dire che, pur non essendo un credente, provo un grande rispetto per l’osservanza religiosa quando questa si limita alle scelte di vita dei singoli, mentre sono fortemente contrario alla sua imposizione attraverso le leggi dello Stato.

Purtroppo, Israele sembra procedere sempre più verso la statalizzazione della religione, verso uno Stato confessionale non dissimile dall’esperienza di alcuni Stati musulmani. Questo è un cammino che considero nefasto almeno per due motivi.

Si sa che le guerre basate sui valori sacri sono particolarmente difficili da pacificare. Gli studiosi di scienze politiche ritengono per lo più che le ragioni della guerra sono accessibili alla ragione, sono cioè analizzabili con l’intelletto e, allo stesso modo, risolvibili.

È sempre più evidente, perciò, che questa impostazione razionale non vale per i conflitti in cui si annidano profonde sacralità. Il conflitto israelo-palestinese appartiene senz’altro a questa categoria.

Quando i popoli si contrappongono sulla base delle reciproche sacralità, essi diventano attori devoti e la loro lotta sfugge a qualsiasi considerazione di realpolitik. Essi sono spinti dai propri valori sacri e dalla propria emotività, e la loro stessa lotta diventa un valore sacro. Gli attori devoti sfuggono pertanto a qualsiasi considerazione di vantaggio materiale e di benessere che la pace può loro apportare. L’idea stessa di compromesso fra le opposte esigenze viene emotivamente respinta. Sotto questo aspetto la religione è un problema.

Il secondo motivo di preoccupazione deriva dal fatto che la confessionalità di uno Stato è incompatibile con la democrazia, che ritengo la forma più matura della convivenza umana.

  • Quali sono le influenze del pensiero religioso mondiale su Israele?

Per ragioni di spazio, mi soffermo solo sul rapporto tra il pensiero religioso degli USA e quello di Israele.

Il credo religioso gioca un ruolo importante nel rapporto privilegiato tra gli Stati Uniti e Israele. L’America conta 82 milioni di protestanti evangelici.  Gli evangelici supportano Israele in modo incondizionato. Ciò deriva dal fatto che l’80% degli evangelici americani vede nella nascita dello Stato di Israele una precondizione per la realizzazione della profezia biblica del ritorno del Messia-Cristo: una convinzione particolarmente radicata nel movimento evangelico dei Cristiani Sionisti.

In questo contesto si inscrivono, ad esempio, le dichiarazioni di John Hagee, fondatore e pastore di riferimento della Cornestone Church, mega chiesa evangelica di San Antonio in Texas. All’indomani del riconoscimento ufficiale da parte di Donald Trump di Gerusalemme come capitale di Israele, John Hagee ha fatto diffondere sui social network il suo video-commento: «Il Presidente Trump ha mantenuto la promessa, è entrato nell’immortalità politica. Quanto ha fatto oggi sarà celebrato in eterno».

  • Nel romanzo Lei ha scritto che la lettura della bibbia andrebbe vietata ai minori? Solo finzione letteraria o qualcosa di più?

Da amante della pace e della non violenza, pensavo alle numerose guerre, dipinte spesso con dovizia di particolari brutali, che l’Antico Testamento riporta come azioni caldeggiate da Dio stesso per la gloria del “Popolo Eletto”.

Rimando alle considerazioni fatte sui “valori sacri”, che valgono naturalmente anche per i palestinesi. Contrariamente alla OLP, che amministra la Cisgiordania, Hamas è un’organizzazione politico-militare fondamentalista: non accetta l’esistenza di Israele e pretende di agire per conto diretto di Allah, cioè secondi rigidi dettami divini che prevederebbero l’annientamento, salvo conversione, dell’infedele.

Hamas non può essere pertanto, in alcun modo, l’interlocutore per qualsiasi accordo di pace.

  • Lei è un uomo di scienza: c’è più affinità tra scienza e pace?  

Decisamente sì. La scienza – quella vera – indaga sulla natura ultima dei fenomeni naturali. È la massima espressione della nostra curiosità, del nostro desiderio-bisogno di spiegare i meccanismi intimi che sottendono a quanto sperimentiamo con i nostri sensi. La scienza pretende la condivisione del sapere su basi esclusivamente razionali – e quindi comunicabili – delle scoperte.

La scienza si nutre del dubbio e dal dubbio trae i suoi stimoli di conoscenza, è consapevole che ogni tappa della conoscenza non è mai certa ed è sempre superabile. La scienza evidenzia la nostra fallace nullità. Essendo tutti così piccoli ed inermi, aspira alla comunione e, quindi, alla pace.

Ciascuna religione – e mi riferisco soprattutto a quelle monoteiste – pur predicando l’amore, è vissuta nella “verità ultima”, in opposizione alle verità ultime di altre religioni. Le religioni, quindi, separano gli umani in tribù antagoniste fino a giustificare, ahimè ancor oggi, la sopraffazione sul miscredente e quindi le guerre, con la benedizione del proprio Dio, s’intende.

Tra Terra e diaspora
  • Qual è il rapporto tra ebrei in Israele ed ebrei in diaspora?  

Gli ebrei della diaspora costituiscono gruppi – comprendenti anche persone non religiosamente osservanti – che sentono di appartenere profondamente alla storia del popolo ebraico. Da ciò deriva il bisogno di aggregazione attorno a un ‘centro’ che è la sinagoga e il rabbino della comunità.

Per gran parte, Israele rappresenta un riferimento fondamentale: è il luogo della propria rinascita come popolo, il “porto sicuro” di difesa dall’antisemitismo e dalle persecuzioni del passato anche recente.

Ne consegue il forte sentimento di solidarietà, l’emozione che facilmente ostacola ogni valutazione razionale, e quindi etica, sui comportamenti dei governanti israeliani. Tale cecità riguarda la maggioranza, ma esistono anche voci critiche, non solo di singoli, ma anche di associazioni ebraiche come Jcall.

  • Lei si è definito “pessimista”: a quale riguardo?  

Il mio pessimismo riguarda l’umanità in genere. Prendo l’affermazione dello storico israeliano Juval Harari che racconta dell’esistenza di due tipi di evoluzione umana.

La prima è quella biologica, darwiniana, che procede in tempi lunghissimi – misurabili in centinaia di migliaia o milioni di anni – orientata al migliore adattamento alle condizioni ambientali, comprese quelle sociali, per la sopravvivenza della specie; riguarda soprattutto i comportamenti legati alle pulsioni automatiche, irrazionali, che impegnano l’80% del nostro cervello.

La seconda evoluzione è di tipo culturale e riguarda la cognitività: un’evoluzione a cui abbiamo accesso tramite la ragione; questa evolve nel giro di qualche generazione compiendo passi importanti verso la civilizzazione e la capacità di perseguire il bene comune attraverso la discussione, gli accordi tra i popoli: all’interno di ciascuno e con la creazione di organismi di confronto sovranazionali, per una convivenza atta a ridurre la sofferenza di cui la vita umana comunque abbonda.

Purtroppo, in determinate circostanze, soprattutto quando entrano in gioco i vari “ismi” – nazionalismi, ideologismi, fideismi, ecc. -, ossia quando le masse vengono trascinate dalla bandiera dell’eroe di turno, perdiamo questa ancor sottile incrostazione positiva e ci abbandoniamo all’irrompere irrefrenabile dei nostri istinti peggiori.

Io faccio un’ipotesi personale: la facilità con cui abdichiamo alla civilizzazione – cioè, al secondo tipo di evoluzione – potrebbe derivare da uno squilibrio fra le due componenti del nostro cervello; una disarmonia, una scissione, una insufficiente comunicazione, forse una pecca dovuta ad un passaggio “sbagliato” della natura.

Ma mi piace concludere con una frase di grande e positiva saggezza dallo stesso Antico Testamento: «Lo straniero che vive con voi sarà per voi come un compatriota e tu l’amerai come te stesso» (Levitico 19,34).

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