“Gli americani non volevano che tornassi viva”. Intervista con Giuliana Sgrena





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Forse non sapremo mai come siano andate davvero le cose quella notte di marzo a Baghdad, vent’anni fa, quando un marine americano, Mario Lozano, fece fuoco contro la vettura che conduceva in aeroporto la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena e l’agente del SISMI Nicola Calipari, che era andato a prenderla dopo un mese di sequestro ad opera della resistenza irachena. Si perderà, anche questa bruttissima storia, come tanti altri misteri italiani, resi ancor più insondabili dal fatto che coinvolgono da vicino gli Stati Uniti, le loro contraddizioni e il loro ruolo, cui ora sembrano aver rinunciato, di gendarmi del mondo. E di quella notte sulla Route Irish di Baghdad ci resteranno soltanto il bel film uscito nelle sale giovedì scorso (“Il nibbio”, diretto da Alessandro Tonda e interpretato da Claudio Santamaria), la testimonianza della diretta interessata e il dolore per la scomparsa di uno dei nostri migliori funzionari: un uomo mite e perbene, capace di instaurare un rapporto di collaborazione e sincera vicinanza con il giornale che più di tutti si era opposto alla partecipazione insensata del nostro Paese alle guerre di inizio secolo. Ci resterà l’odore del sangue e il puzzo fetido della guerra, tornata tristemente d’attualità negli ultimi anni, come se le conseguenze degli orrori di allora non fossero ancora ben presenti nella nostra quotidianità. Ci resterà la paura per un rapimento che tenne con il fiato sospeso almeno quella parte dei nostri connazionali che aveva deciso di non arrendersi alla barbarie e di non rassegnarsi alle verità ufficiali: un manicheismo tornato anch’esso di moda, nel costante tentativo di dividere il mondo in buoni e cattivi, con i primi sempre incarnati dall’universo occidentale e i secondi sempre rappresentati dal resto del pianeta. E ci resteranno lo strazio di Giuliana ferita al suo ritorno, la sua sincera commozione e il suo sconforto al pensiero di essersi salvata grazie alla scelta, coraggiosissima e tragica, di Calipari di gettarsi su di lei, facendole scudo col proprio corpo e rimettendoci la vita. Lo ha detto in più di un’occasione e comprendiamo il suo stato d’animo e il suo punto di vista: non potrà mai essere felice per la conclusione di un incubo che ha segnato l’inizio di un altro incubo, colpendo nel profondo un’altra donna, la vedova di Calipari, Rosa, e i suoi due figli.

Del resto, quella di Giuliana altro non è che la storia di quella parte della società che ha deciso di non rassegnarsi, di non rimanere indifferente, di opporsi a ogni conflitto, a ogni carneficina, a ogni sedicente “guerra umanitaria”, ben sapendo che non ne esistono, e di testimoniare la verità sul campo, come nel suo caso, o di scendere in piazza, come fecero alla vigilia della mattanza irachena oltre cento milioni di persone in tutto il mondo.

Ce li ricordiamo bene quegli anni: la globalizzazione liberista che doveva prevalere a ogni costo, in nome dell’ideologia basata sulla “fine della storia” e sulla vittoria definitiva dell’Occidente su tutti gli altri popoli, in un’orgia di potere e di dominio senza precedenti, e poi l’estate del 2001, fra Genova e le Torri Gemelle, cui fecero seguito le inutili stragi in Afghanistan e in Iraq.

Ci ricordiamo i nomi e i volti dei protagonisti, compresi i tanti colleghi che, come oggi, trattano chiunque esprima l’ideale della pace come un povero idiota. Ci ricordiamo gli insulti a Gino Strada, le aggressioni verbali nei confronti di chi esponeva fuori dal balcone la bandiera arcobaleno e la miriade di episodi di ferocia e intolleranza che hanno contribuito ad alimentare il clima irrespirabile che ha condotto l’umanità sull’orlo dell’abisso, oltre che in una guerra permanente con se stessa. Infine, ci ricordiamo Giuliana e la sua dignità, anche nelle mani dei rapitori, nei giorni del sequestro e dopo.

Quanto a Calipari, ci sia consentito di sottolineare, ancora una volta, che se non si giungerà mai alla verità, o magari essa emergerà fra tanti anni, quando non sarà più possibile far nulla, è proprio perché si trattava di un galantuomo che, pur lavorando in un ambiente difficile e non certo incline ai sentimentalismi, aveva deciso di interpretare il proprio compito con passione e umanità, manifestando in più occasioni quella solidarietà e quella gentilezza d’animo di cui ci sarebbe bisogno in ogni ambito. Per dirla con De André, quando pensiamo a Calipari ci viene in mente il soldato che si rifiuta di gettare la bomba: un piccolo eroe civile che, tuttavia, non gradirebbe questa definizione, rispondendoci che stava compiendo unicamente il proprio dovere. Anche per questo, a vent’anni di distanza, gli rendiamo omaggio e gli diciamo grazie.

Caro Nicola, il mondo in due decenni è diventato, se possibile, addirittura peggiore. Se andiamo avanti, dunque, è perché sappiamo che ci sono state persone come te che all’odio, all’ignoranza, alla furia, all’indifferenza, al disincanto e alla complicità con il peggio del peggio hanno deciso di opporsi, anche a costo della vita.

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Vent’anni e un destino nello squallore odierno.


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