Ospedali in bancarotta e welfare a rischio: la Cina si scopre vecchia


Negli ultimi cinque anni almeno 200 strutture, per la maggior parte private, hanno dichiarato fallimento. Una piccola percentuale, vero, ma la tendenza è preoccupante. Anche perché si intreccia con il rallentamento economico, il calo della natalità e la conseguente crisi del sistema pensionistico che Xi ha cercato di arginare con l’ultima riforma. Il punto.

Ospedali in bancarotta e welfare a rischio: la Cina si scopre vecchia

Febbraio 2020 è appena cominciato. Sono trascorsi 11 giorni dall’inizio del lockdown di Wuhan, la prima quarantena di massa dei tempi moderni. Nonostante i timori, il mondo spera ancora che l’epidemia di coronavirus possa restare confinata alla Cina, senza immaginare l’estensione e la durata di quella che diventerà la pandemia di Covid-19. Per la precisione, è il 3 febbraio 2020 e a Wuhan entra in funzione l’ospedale di Huoshenshan, costruito in meno di due settimane. Quella struttura diventa rapidamente il luogo simbolo del contenimento sanitario del virus, nonché delle ingenti spese approntate dal governo cinese per provare a eradicare quello che lo stesso presidente Xi Jinping ha definito «un demone». È l’inizio della cosiddetta “strategia zero Covid“, che prevede una guerra totale contro il virus e la sua distruzione, non la convivenza con esso. Nemmeno nelle sue variazioni meno letali. Cinque anni dopo, quell’ospedale è vuoto. Nei pressi, c’è solo una piccola stazione di servizio che si definisce base educativa anti-Covid, con in mostra una serie di foto della visita di Xi a Wuhan durante il lockdown, il 10 marzo 2020. Huoshenshan è ora il simbolo di un sistema sanitario in grave difficoltà, con le casse del sistema del welfare quasi svuotate dalle mastodontiche spese dell’era pandemica, da cui Pechino ha scelto di uscire solo a inizio 2023 dopo le proteste dell’autunno 2022.

La costruzione dell’ospedale di Huoshenshan, a Wuhan, nel 2020 (Getty Images).

In Cina negli ultimi cinque anni più di 200 ospedali hanno dichiarato bancarotta

Ebbene, negli ultimi cinque anni più di 200 ospedali hanno dichiarato pubblicamente bancarotta. Quasi tutti i fallimenti riguardano nosocomi privati. Vero, le chiusure hanno colpito solo una piccola parte del totale degli ospedali cinesi, quasi 40 mila alla fine del 2023, ma la tendenza è preoccupante, anche per la sua portata simbolica. Il miglioramento del settore sanitario è stato infatti spesso accomunato alla crescita economica della Cina, che ha portato un numero maggiore di persone a vivere in salute e più a lungo. Dagli Anni 70, L’aspettativa di vita media è aumentata di oltre 15 anni, mentre il tasso di mortalità infantile è sceso sotto lo 0,5 per cento nel 2023, rispetto al 30 per cento degli Anni 50. Negli ultimi anni però è cambiato tutto. Il debito degli ospedali pubblici, costretti a contrarre ingenti prestiti, è quasi quadruplicato dal 2011 al 2021, secondo l’Annuario statistico sanitario cinese. Le entrate sono crollate durante la pandemia, quando sono entrate in funzione strutture dedicate esclusivamente alla cura dei malati da coronavirus e la maggior parte dei cinesi ha interrotto le altre cure o visite.

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L’ospedale Renji a Shanghai (Getty Images).

I motivi della crisi del sistema sanitario

I minori ricavi degli ospedali vanno di pari passo col peggioramento delle condizioni di lavoro degli operatori sanitari. Di recente, il China Labour Bulletin ha pubblicato un ampio rapporto che mette in luce la diffusione di fenomeni come mancato pagamento dei salari, il sovraccarico di lavoro, trattamenti iniqui, condizioni di lavoro non sicure. Molti dipendenti denunciano mesi di stipendi arretrati. Gli ospedali fanno infatti più fatica di prima a ricevere i prestiti necessari a coprire le difficoltà. Incide pesantemente la grave crisi immobiliare degli ultimi anni. Motivo? Il modello di sviluppo a debito del settore, che si basava sull’inestricabile legame col sistema bancario ombra e dei fondi fiduciari, a cui erano a loro volta esposte le casse delle province. Da qui un cortocircuito da cui si sta rivelando difficile uscire e che incide anche sulle possibilità di cura dei cinesi.

Diminuiscono le spese dei cittadini per il welfare

Per la maggior parte degli 1,4 miliardi di abitanti, i costi dell’assistenza sanitaria sono pagati nell’ambito di uno dei due programmi assicurativi. Il principale, che copre più di due terzi della popolazione, serve i residenti delle zone rurali e i lavoratori autonomi o disoccupati delle aree urbane, compresi i bambini e gli anziani. È sovvenzionato dal governo, anche se i cittadini devono contribuire pagando i premi assicurativi. Ma il numero di persone che pagano il programma è diminuito per quattro anni consecutivi, complici il rallentamento della crescita economica e l’accentuazione della tendenza al risparmio dei cinesi che sta abbattendo non solo i consumi, ma anche le spese per il welfare. Molti guardano a delle alternative, come le cosiddette “cliniche comunitarie” che promuovono la medicina tradizionale cinese.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

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Un centro di medicina tradizionale cinese (Getty Images).

Il problema si intreccia al calo della popolazione 

Il problema degli ospedali è serio, anche perché è intrecciato con l’ulteriore problema del calo della popolazione, cominciato già nel 2022 in netto anticipo rispetto al previsto. Un processo che pare irreversibile, col tasso di natalità che continua a scendere nonostante i tentativi del governo di sostenerlo. Nel 2023, lo stesso Xi ha chiesto alle donne del Partito di promuovere una «nuova cultura» del matrimonio e della maternità. Ma la Cina resta uno dei Paesi dove crescere i figli è più costoso al mondo e, secondo una ricerca di Goldman Sachs, entro il 2030 il numero di animali domestici nelle aree urbane della Cina sarà superiore a quello dei bambini in tutto il Paese.

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Un cane robotico e una anziana a Hangzhou, nella provincia dello Zhejiang (Getty Images).

Il nodo pensioni e la riforma voluta da Xi

Si prevede che entro il 2035 i cittadini cinesi con più di 60 anni saranno più di 400 milioni, rispetto ai 280 milioni attuali. Nel prossimo decennio, circa 300 milioni di persone, che attualmente hanno tra i 50 e i 60 anni, lasceranno la forza lavoro. Un numero quasi equivalente all’intera popolazione degli Stati Uniti. Già nel 2019, uno studio dell’Accademia cinese delle scienze sociali sosteneva che entro il 2035 il fondo pensionistico statale avrebbe rischiato di finire i soldi. Con un effetto a cascata sull’intero sistema del welfare. Una stima evidentemente rivelatasi ottimistica, visto l’effetto della pandemia e delle varie turbolenze internazionali. Da qui la decisione di rompere gli indugi, visto che lo scorso primo gennaio è entrata in vigore la prima riforma delle pensioni dagli Anni 50. Per gli uomini si passerà dai 60 anni attuali ai 63 entro il 2040. Per le donne si passa invece da 50 a 55 per gli impieghi nel settore operaio e da 55 a 58 anni negli altri casi. Aumentano anche gli obblighi. A partire dal 2030, i dipendenti dovranno versare più contributi al sistema di previdenza sociale. Entro il 2039, dovranno accumulare 20 anni di contributi per andare in pensione. Avere una delle età pensionabili più basse al mondo è infatti sempre stato un vanto per il Partito comunista, nonché una prova che il suo modello di sviluppo funziona. Ma ora il vento è cambiato e Xi ha ceduto a un contesto che stava rendendo il sistema insostenibile, facendo chiudere le serrande a sempre più ospedali.

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Xi Jinping (Getty Images).



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