Al centro della questione, la soppressione – nei casi di violenza sessuale di gruppo, ma anche di omicidio e rapine aggravati – della messa alla prova
La norma del decreto Caivano che vieta la messa alla prova per alcuni tipi di reato potrebbe essere incostituzionale. A sollevare la questione davanti alla Corte è stato un giudice del tribunale per minorenni di Roma, Federico Falzone, che con un’ordinanza ha evidenziato profili di illegittimità, informando – scrive la Repubblica – anche la premier Meloni e i presidenti di Camera e Senato. Al centro della questione, la soppressione – nei casi di violenza sessuale di gruppo, ma anche di omicidio e rapine aggravati – della messa alla prova, ovvero l’istituto giuridico che consente di congelare il procedimento penale, e di concordare con il giudice un percorso di riabilitazione per il minore. Secondo Falzone vietare la M.A.P. viola i principi fondamentali della giustizia minorile, ma rischia anche di annullare il percorso rieducativo dei minori, che dovrebbe essere garantito dalla Costituzione, a favore della sola punizione.
L’ordinanza del magistrato di Roma parte da un caso concreto di violenza sessuale di gruppo avvenuto tra gennaio e febbraio del 2024, e per cui è in corso un procedimento penale. Prima del decreto Caivano – voluto fortemente dalla premier Meloni nel 2023 per «contrastare la criminalità minorile» – i giudici potevano valutare caso per caso e decidere, nell’ipotesi ci fossero i presupposti per un recupero del minore, se applicare o meno l’istituto della messa alla prova. Con la nuova legge, questa possibilità viene azzerata: l’unica pena per questo tipo di reato è la detenzione.
Articoli 31 e 3
Tale divieto per Falzone, si legge nel ricorso alla Consulta, contrasta con l’articolo 31 della Costituzione («La Repubblica protegge (…) l’infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale scopo»). Per il giudice, il divieto della messa alla prova «sminuisce il ruolo rieducativo del sistema penale minorile e tradisce la funzione stessa della giustizia». Ma non è tutto: la norma violerebbe anche l’art. 3, che assicura il principio di uguaglianza formale e sostanziale, perché «introduce una disparità di trattamento per i reati. Per esempio, sottolinea Falzone, la messa in prova è ancora possibile per i minori colpevoli di associazione a delinquere di tipo mafioso, mentre non lo è per la violenza sessuale di gruppo. «Prevedere un catalogo di reati (tra cui la violenza sessuale aggravata) in relazione ai quali privare l’imputato della possibilità di accesso a questo istituto di recupero e reinserimento sociale senza la possibilità del giudice di valutare nel merito la richiesta costituisce un vulnus non solo di tutela e protezione del minore autore del reato, ma anche dell’intera collettività contro i rischi di una possibile recidiva», si legge. A sostegno della sua tesi, il magistrato cita poi altre sentenze della Consulta che hanno riconosciuto in passato il ruolo essenziale della messa alla prova, e atti internazionali che stabiliscono come la pena detentiva per i minori debba rappresentare l’extrema ratio.
I precedenti di Bari e Trento
Non è la prima volta che un giudice solleva la questione di legittimità costituzionale sulla norma che vieta la messa alla prova per determinati reati. Lo scorso anno era stato il gip (giudice per le indagini preliminari) del tribunale per i minorenni di Trento e pure il gup (giudice per l’udienza preliminare) del tribunale di Bari a rivolgersi alla Corte. In quest’ultima occasione in particolare, i giudici pugliesi lamentavano il contrasto con l’articolo 31 della Costituzione, ricordando inoltre come il processo minorile «è volto principalmente al recupero del minore deviante, mediante la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale» e per questa ragione «il giudice è chiamato, di volta in volta, a esaminare la personalità del minore imputato». Ma le questioni – si legge nell’ordinanza – sono state «dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza». Nei processi minorili si può, quindi, escludere la messa alla prova degli imputati accusati di violenze sessuali di gruppo su minori, rapine aggravate e omicidi aggravati; ma, comunque, solo per i fatti avvenuti dopo l’introduzione del decreto Caivano, spiega la Corte. Che ora dovrà esprimersi nuovamente dopo la richiesta del giudice romano, nonostante – nei due casi precedenti, molto simili tra loro – abbia già giudicato «inammissibile» la questione di legittimità costituzionale.
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