Il reato di femminicidio. Come aggiungere errore a orrore


Il disegno di legge con cui il governo si propone, per la prima volta in Europa, di introdurre il reato di femminicidio, e presentato alla vigilia dell’Otto marzo come la réclame del panettone alla vigilia di Natale, dice che cosa è diventata la politica (lo sappiamo e ce lo ripetiamo), ma anche che cosa siamo diventati noi (non lo sappiamo o non vogliamo confessarcelo). Ovvero protagonisti o autori o spettatori del talk da infotainment a cui è ridotto il dibattito pubblico.

Partirei dal desiderio di fare colpo del legislatore, con l’inevitabile enfasi dei momenti piccini. Il provvedimento “epocale” è stato spiegato sabato 8 dal ministro Carlo Nordio, in un’intervista a Alessandro Sallusti sul Giornale, con un parallelo di sbalorditiva superficialità che merita di essere riproposto integrale: “Il femminicidio sta all’omicidio come il genocidio sta alla strage”. Nel senso che, prosegue Nordio, “il genocidio non colpisce a caso, vuole colpire una specie, una etnia, una categoria di esseri umani e lo stesso vale per il femminicidio che colpisce una donna in quanto tale”. Se queste sono le fondamenta della legge, c’è da essere terrorizzati dall’architetto. Primo, anche il mafioso non colpisce a caso, non lo fa neanche l’assassino del socio in affari, o il figlio che uccide il padre per l’eredità, solo il terrorista colpisce a caso; secondo, nulla mi pare così lontano come il femminicidio dal genocidio. Il femminicidio non è l’eliminazione di una donna in quanto donna, ma di quella precisa donna in quanto è la “mia”, e cioè implica il massimo del coinvolgimento emotivo (mostruoso, tocca sottolinearlo per chi ambisce a fraintendere), mentre il genocidio richiede il massimo della spersonalizzazione, diventa questione industriale e burocratica, come perfettamente chiarì il processo Eichmann.

Stamattina, domenica 9, sempre sul Giornale, è la presidente della Commissione giustizia, Giulia Buongiorno, a prodursi in una logica spericolatissima: fino al 1981, l’assassino di una donna, ferito nell’onore, era sanzionato con qualche mitezza, e così il codice penale finiva col sancire l’inferiorità della donna; oggi, prosegue Bongiorno, “viene affermato il principio opposto”, ovvero chi uccide una donna perché la considera inferiore verrà punito più severamente. E così il postulato costituzionale di uguaglianza davanti alla legge continua a essere negato oggi, com’era negato allora, ma per motivi opposti, e lo dice Bongiorno senza rendersi conto del paradosso. Oppure rendendosene conto ma facendosi bastare, per giustificare lo squilibrio delle pene, la presunzione che il femminicida agisca considerandosi superiore. Un po’ debole per essere una riflessione giuridica.

A me pare del tutto evidente che il disegno di legge è incostituzionale, poiché si incarica di stabilire che il marito che uccide la moglie è più colpevole della moglie che uccide il marito (succede meno ma succede), e incrina un principio sacro come quello di uguaglianza; ma anche la Costituzione viene piegata ai venti e ai tempi, e lo fu quando incrinò il principio di uguaglianza nell’accogliere il delitto d’onore, come si è accennato qua sopra. E oggi lo si fa per l’incapacità, conclamata nella politica italiana ed esibita in quella del governo Meloni, di affrontare qualsiasi problema se non con un po’ di galera in più e un po’ più facilmente, poiché a questo si riduce la svolta “epocale” (leggete qui Federica Olivo). Incredibile come si trascuri da decenni, da secoli, da sempre, che aumentare le pene non è mai un deterrente, e tantomeno lo sarà per i femminicidi, i quali agiscono in uno stato di tale feroce delirio che a trattenerli non sarà una supplementare riflessione sulle modifiche del codice penale.

Infine, ieri abbiamo ospitato un’intervista a Francesca Izzo e un intervento di Paola Tavella. Sono due donne che seguo da anni con grande attenzione e rispetto per l’autonomia e la profondità del loro giudizio. Leggetele e fatevi un’opinione vostra. Ma io vorrei proporre loro due obiezioni. A Francesca Izzo, che attribuisce alla legge “un valore simbolico”, vorrei chiedere se sia accettabile, in una democrazia liberale, che una legge sia elevata a simbolo, dunque se sia accettabile che un uomo venga giudicato, eventualmente condannato e di conseguenza punito non soltanto per quello che ha commesso ma per quello che simboleggia, e vorrei chiederle se questa non sia una mostruosità di stampo cinese. A Paola Tavella, secondo cui la legge “mette a posto questa indecente e oscura voglia di vendetta che tormenta molti cuori femminili”, vorrei chiedere se non si stia rispondendo da sola, e cioè se non sia il desiderio di vendetta a ispirare la legge, e se non sia il modo perché la vendetta sia legittimata, aggiungendo errore a orrore, e forse orrore a orrore.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Finanziamenti personali e aziendali

Prestiti immediati