L’influenza di Andy Warhol su Raf Simons Versace e Mary Quant


«Una volta che “entri” nel pop, non puoi più guardare un cartello pubblicitario nello stesso modo di prima. E una volta che cominciavi a pensare pop, non potevi più guardare l’America nello stesso modo di prima».

Dopo la vertigine esistenziale dell’Espressionismo astratto e in una certa misura del New dada, fra le mille luci di New York l’arte si scoccia, si stufa, cerca solo leggerezza, vuole fare la spesa al supermercato o sedersi in un diner a sgranocchiare pancakes e bere Coca-Cola. E capisce, senza vergognarsi di scadere nell’anonimia della banalità, che il barattolo rosso e bianco di una zuppa di pomo- doro o di pollo ingrandito e ricalcato in serigrafia quasi quasi – sai che c’è? – è più bello di una pala d’altare. Per inciso, è la stessa zuppa che Julia Warhol preparava al piccolo Andy e che lui si mangiava di gusto, poiché in questa nuova ontologia delle merci e dei piccoli piaceri «niente di speciale» ma buoni, tanto buoni, quattro salti semmai si fanno in padella, non in una performance che finisce con uno sgocciolio di pittura su tela.

Con Andy Warhol (1928) qui parliamo di tutt’altra cosa. E allora non buttiamoli lì i fattori di novità di «posa» e di cibo «in scatola» accennati qualche riga fa, riprendiamoli per un attimo per scompattarne le implicazioni con qualche parola supplementare, visto che si tratta di indicatori fenomenali nello stanare l’essenza di un’arte e di una moda del «qui e ora» vertiginosamente protese a inneggiare alle chincaglierie degli anni Sessanta, a mostrarci che pure la valanga delle carabattole da centro commerciale, anche se razziata dai corner shop del Bronx, di Brooklyn o del Queens, è degna di meritarsi gli effetti di straniamento conferitale da una diversa ri-mappatura estetica. La posa è difatti un dovere comportamentale per Warhol, lo è stata fino alla morte, tanto che l’artista si è fatto seppellire con la sua iconica par- rucca biondo platino e con gli occhiali da sole, vezzo peraltro condiviso con Lagerfeld. 

L’affettazione esagerata del suo personaggio, Warhol la gestisce con una teatralità flemmatica, clonando la propria immagine con diversi sosia così da partecipare in contemporanea agli eventi mondani della città, in una coerente forma di moltiplicazione talmente caricata, manierata e stucchevole da suscitare le irritazioni di Johns e Rauschenberg, come gli spiffera l’amico De: «Okay, Andy, se davvero vuoi sapere la verità, te lo dico chiaro e tondo. Tu sei troppo “frocetto”, e questo li manda in bestia». Ma a ben vedere, perfino essere «frocetto» diventa un ruolo, l’assunzione enfatizzata di una maschera che si indossa per allargare i confini della propria libertà e per esacerbare i limiti di chi si crede dalla par-te giusta, quella del pregiudizio a guardia dei sani valori della casa, della chiesa e della famiglia. 

[…] Sicché mostrarsi diversi, in un «essere-come-recita» performato dagli avventori della Factory, lo studio dove Warhol realizza le sue opere in serie come in una catena di fabbricazione industriale e dove gli eccessi si potenziano al parossismo, diventa una pantomima d’obbligo: succede a Midtown Manhattan, al 231, sulla 47a est, dove Warhol vive e lavora con travestiti, fricchettoni, forse con qualche accattone e dove i Velvet Underground provano i loro pezzi musicali. 

[…] Intanto, Warhol lavora come grafico nel mondo della pubblicità, quindi in un ambiente professionale che fonda la sua propria essenza operativa su loghi e prodotti; nel 1955 collabora con la ditta di scarpe I. Miller e richiama Marcel Proust nel titolo À la Recherche du Shoe Perdu per una campagna destinata all’edizione domenicale del «New York Times»; l’anno dopo, sempre più convinto della sua strada, inventa le scarpe della serie Golden Shoes, tutte immaginate per il mondo di celebrities che Warhol effigierà di lì a breve nelle sue serigrafie a colori. 

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Naturalmente, la passione dell’artista per le scarpe non è passata inosservata nella moda, fra gli altri a Raf Simons, che per una delle sue collezioni a capo di Dior ne ha stampato la sagoma su tessuti e borse, richiamato da quelle linee sospese tra il glam di una doratura kitsch e una stilizzazione molto naïve, dai tratti ancora ampiamente personalizzati. La svolta pienamente pop, però, di un’arte realizzata nascondendo le incertezze della mano, avviene attorno al 1962. Da questo momento in poi i contenuti warholiani non hanno nulla da spartire con astrazioni di colore, con macchie esistenziali, con interiorità vulcaniche o con soggetti impenetrabili ai più: tutto il mondo – o almeno una gran fetta – ha presente la bottiglia della Coca-Cola con il suo tappo a corona o il logo della Pepsi, conosce lo splendore stupefacente di Marylin Monroe, gli occhi viola di Liz Taylor, l’Elvis con il revolver in mano, e se ancora non ha idea di cosa siano le lattine della Campbell o le pastiglie per lavastoviglie Brillo, ben presto tutto il mondo le avrebbe viste trionfare ovunque senza stare a chiedersi se mai sussista un significato mistico o arcano dietro la vivace saturazione di colori di quelle icone senza storia. 

Per la prima volta anche l’arte, come la musica, diventa popolare, facile e accessibile, e bella, molto bella, poiché grazie a Warhol abbiamo capito che pure il packaging dei banali prodotti di consumo ha una sua cura e una sua piacevolezza, a maggior ragione se un artista li moltiplica a centinaia sulla stessa superficie, o li ingrandisce straniandoli, per aumentare la pienezza accecante delle cromie. Lo stesso trattamento meccanico, di secchezza ipertrofica e serializzata che l’artista crea attorno alle sue immagini, la ritroviamo, di nuovo, nella moda di Mary Quant, il cui logo della margherita è omologo ai Two Foot Flowers warholiani del 1962, mentre Warhol stesso rileva all’istante il mutamento indumentale dell’epoca: «Nel ’64, tutto divenne giovane. I ragazzi cominciarono a buttar via tutti quei completi da ufficio e vestiti e sussiego che li facevano assomigliare ai loro genitori, e all’improvviso il mondo si rovesciò, erano le madri e i padri che volevano assomigliare ai figli», in un inno incondizionato al progresso e ai suoi tanti derivati, seppure con conseguenze che vedremo tra poco. 

Una, però, la cogliamo al volo e inerisce alle sorti di una vecchia conoscenza oramai inerme e indifesa. Povero diavolo, della sua voce sciagurata non si sente nemmeno un filo: dal pasto nudo di un Bacon o di un Rothko, simbologie pittoriche di un’autenticità calda e impetuosa, è finito pure lui in un pasto «in scatola» con additivi e conservanti, mortificato, coda tra le gambe, chiuso com’è nell’imballaggio del ketchup Heinz e infarcito di antiossidanti, emulsionanti, agenti gelificanti e addensanti che ne surgelano lo spirito di rivolta. 

Insomma, le istanze del profondo vengono appiattite in un catalogo di figurine pop, omogeneizzate nella stereotipia e, non ultimo, indurite nella plastica, materiale di cui, nel suo diario, Warhol ammira l’abbondanza nel negozio newyorkese dell’amico Fiorucci. Certo però che quel ben di dio «niente di speciale» avrà un impatto enorme nella cultura contemporanea. Più di ogni altra opera d’arte del secondo Novecento, la Marylin di Warhol si infratterà nei gusti, nei poster, negli adesivi del grande pubblico e, fra l’infinità degli estimatori in moda, con il James Dean a colori sarà citata da Gianni Versace in una sua collezione del 1991.

Copertina de “La voce del diavolo. L’arte contemporanea e la moda”.

Tratto dal libro “La voce del diavolo. L’arte contemporanea e la moda” di Fabriano Fabbri  (Einaudi Editore), 2024,  44,00€



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