Bruxelles non salva il Protocollo Albania


Ad ogni tappa del fallimento di sistema del governo Meloni in materia di immigrazione e asilo ritorna il richiamo ad appoggi che arriverebbero da Bruxelles sulla esternalizzazione delle procedure in frontiera per i richiedenti asilo e sulla gestione comune dei rimpatri con accompagnamento forzato.

Una propaganda ormai dilagante – malgrado solenni smentite che arrivano dai giudici italiani e dalle Corti internazionali – spaccia il numero estremamente ridotto di espulsioni e respingimenti effettivamente eseguiti come se si trattasse di una conseguenza del sostanziale blocco delle procedure accelerate in frontiera e dei centri di accoglienza/detenzione costruiti in Albania, una responsabilità che si attribuisce alla magistratura “ideologica”.

Si nasconde all’opinione pubblica che la maggior parte delle persone straniere in condizioni di irregolarità sul territorio nazionale, che dovrebbero essere espulse, non sono richiedenti asilo provenienti da paesi di origine definiti come “sicuri”, e denegati per manifesta infondatezza della domanda, ma immigrati che da anni si trovano e lavorano sul nostro territorio.

Il Parlamento europeo in seduta plenaria a Strasburgo esamina oggi una nuova proposta di direttiva sui rimpatri presentata dal Commissario europeo per le migrazioni Magnus Brunner che non comprenderebbe l’introduzione di “hub di rimpatrio” in paesi terzi. L’Agenzia europea per i diritti fondamentali ha ribadito che costruire questi campi di detenzione al di fuori dell’Unione non esonera dall’osservanza del vigente diritto euro-unionale, poiché gli Stati membri e Frontex rimarrebbero «responsabili delle violazioni dei diritti nei centri e durante qualsiasi trasferimento». In nessun caso i centri di detenzione in Albania potranno modificarsi in hub per i rimpatri, per stranieri irregolari già presenti in Italia, senza una sostanziale integrazione del Protocollo Italia-Albania che Edi Rama, sotto elezioni, non sembra affatto disposto ad accettare.

Ursula von der Leyen insiste su «nuove regole» sui rimpatri, per renderli «più semplici, più rapidi e più efficienti», e sembra disposta ad accelerare il passo anche sulla creazione di centri hotspot per la esternalizzazione delle procedure di asilo al di fuori dell’Unione europea, proposta da non confondere con gli “hub per i rimpatri”, che si rivolgerebbero a persone già destinatarie di un provvedimento di allontanamento forzato ricevuto in un paese europeo. Entrambe le ipotesi sono attualmente in contrasto con la vigente Direttiva rimpatri 2008/115/CE, che non si era riusciti a modificare lo scorso anno per divergenze tra i paesi membri, divergenze che non sembrano affatto superate neppure oggi.

Per esigenze di «difesa dei confini europei» si cerca adesso di adottare con un Regolamento europeo nuove regole che possano facilitare i rimpatri forzati anche a scapito dei diritti di difesa e dei principi in materia di libertà personale sanciti dalle Costituzioni nazionali e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ma l’Italia non si presenta al tavolo del negoziato con le carte in regola. Sono queste le vere ragioni che hanno scatenato una rabbiosa reazione del governo italiano di fronte alla esemplare decisione della Cassazione sul caso Diciotti. Un precedente che potrebbe assumere rilievo anche a livello europeo.

Una politica comune dei rimpatri non è neppure ipotizzabile se l’Unione europea non avrà una politica estera comune nei confronti dei paesi di origine, in alcuni dei quali sta crescendo in modo esponenziale l’influenza di altri paesi terzi, come la Turchia, la Russia, la Cina e persino degli Stati Uniti, che ne possono condizionare le scelte di governo, all’insegna di una feroce spartizione delle risorse naturali, che conta molto più dei propositi europei di rimpatri di massa. Una politica estera verso i paesi dai quali i migranti sono costretti a partire si costruisce soltanto con garanzie effettive di rispetto dei diritti umani, con la cooperazione economica in materia di migrazioni legali e di sviluppo sostenibile, non con i voli di rimpatrio, con le forniture di armi e con la militarizzazione delle frontiere.



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