Nella regione remota di Gracias a Dios, in una delle aree più ricche dell’Honduras in termini di biodiversità, fasce estese della popolazione maschile girano in sedia a rotelle e convivono con una condizione di deficit motorio permanente. In queste comunità indigene costiere, affacciate sul Mar dei Caraibi e circondate da mangrovie e paludi, generazioni di pescatori vivono con paralisi permanenti. Zone abbandonate a loro stesse, in cui regnano miseria e povertà e lo stato è totalmente assente. Una precarietà che le costringe a lavorare in mare aperto a condizioni estreme, in mancanza di qualsiasi forma di tutela: si immergono in acque profonde a caccia di aragoste, per portare a casa qualche soldo. Almeno quelli che riescono a tornare sani e salvi.
I Miskito, gli indigeni caraibici a caccia di aragoste
Per centinaia di anni le comunità Miskito sono sopravvissute pescando. Sin dagli albori pescatori, da qualche decennio pure sub specializzati in aragosta. Pronti a immergersi alle prime luci del giorno durante la lunga stagione di pesca del crostaceo, che va da luglio a febbraio. In mezzo agli squali, con bombole d’ossigeno arrugginite, pinne e maschere rotte, raggiungono i fondali marini per scovare le aragoste rintanate. “Premiati” a fine turno con un salario da fame dai proprietari delle imbarcazioni, decisi a risparmiare sulla pelle dei subacquei, sprovvisti di muta, manometro e dell’equipaggiamento protettivo adeguato alle profondità da esplorare, di cui peraltro sono all’oscuro.
I capitani non forniscono alcun supporto in caso di infortuni: spesso si rifiutano di pagare le cure e impongono turni massacranti di immersioni (più di dodici al dì, contro le tre consigliate); al massimo, sempre per il proprio tornaconto, mettono a disposizione dei più malconci dell’equipaggio iniezioni e farmaci affinché garantiscano comunque il bottino.
Pescare per vivere o morire pescando
Paga misera, dolori e stanchezza sono nulla in confronto al pericolo che corrono lavorando: possono ammalarsi di bends, una malattia da decompressione che rischiano di contrarre quando risalgono in superficie troppo rapidamente. Nella risalita repentina respirano aria compressa contenente azoto gassoso che può accumularsi nei tessuti corporei. Lo sbalzo di pressione atmosferica può determinare uno stress non tanto diverso dal barotrauma di cui può patire il pescato d’amo. Entro 48 ore dall’emersione e 24 dalla comparsa dei primi sintomi di bends, i pescatori andrebbero accompagnati alla camera iperbarica più vicina. In caso contrario, è elevata la possibilità che soffrano di disturbi mentali, problemi di coordinazione o paralisi. Cosa che accade frequentemente, perché i datori di lavoro non investono nell’addestramento e nemmeno nell’attrezzatura (c’è chi è costretto a immergersi con una sola bombola).
Secondo i dati raccolti nel 2023 dal Centre for Justice and International Law (CEJIL), dei 9000 sommozzatori il 97% ha sofferto del la patologia. A ciò si aggiunge il fatto che i titolari dell’attività spesso non sono disposti a ‘sprecare’ la benzina per scortare gli infortunati a un centro di soccorso. Perciò, non potendosi permettere il tragitto in barca verso l’ospedale di Puerto Lempira, i poveri Miskito finiscono senza accesso a cure mediche o riabilitazione e, nei casi più gravi, arrivano a soccombere. E un simile destino li aspetta quando vengono scaricati su delle barche a remi per raggiungere da soli la clinica del capoluogo.
Lo sfruttamento dell’industria ittica americana
A condizionare i pescatori anche le manovre di cattura imposte dai responsabili dei pescherecci, preoccupati dall’eventualità che gli esemplari prelevati riportino i segni della pesca, un dettaglio che ne complicherebbe la vendita come pescato di nassa. Motivo per cui la presa del palinuro dalla coda, benché più semplice, viene fortemente “disincentivata”. Ai comandanti delle imbarcazioni costa meno sfruttare i subacquei, più economici rispetto alla pesca tramite trappole. Per quanto appena accennato, gli importatori statunitensi dichiarano di distribuire solo aragoste pescate con nasse. Nell’inganno della filiera, riscontrabile a tutti i livelli, tale dichiarazione consente loro di non essere attaccabili sul piano dei diritti dei lavoratori.
Il business dell’aragosta spinosa in Honduras sfiora i 50 milioni di dollari. Si tratta per lo più di export destinato alla distribuzione USA (l’86% stando alle statistiche ONU). Investì per anni nel mercato con migliaia di dollari pure Darden Restaurants, il vecchio proprietario di Red Lobster, storica catena di ristoranti d’oltreoceano che ha reso cheap la cucina marinara. Per rendere la pesca “sostenibile” sono stati investiti ben 220.000 dollari nel progetto FIP (Fishery Improvement Project), pensato per migliorarne tanto la pratica quanto la gestione: i beneficiari sono tenuti a dotarsi di nasse che preservino l’habitat marino e a fornire incentivi alle barche affinché le utilizzino. Invece, ne è uscito fuori giusto un sistema di tracciabilità che ha interessato sia confezionamento che monitoraggio delle imbarcazioni. Integrazione funzionale al conseguimento della certificazione di sostenibilità a marchio MSC (Marine Stewardship Council). Così configurati, i FIP divengono uno strumento per agevolare il commercio, «qualcosa di cui il rivenditore e il supermercato hanno bisogno per vendere pesce» (Katrina Nakamura, Sustainability Incubator).
La sentenza di condanna
Le criticità del circuito caraibico sono state svelate da un’inchiesta di Civil Eats che ha spinto la Walton Family Foundation — istituita dai fondatori della multinazionale Walmart — a prendere le distanze pubblicamente dai FIP cui aveva destinato dei fondi con la prospettiva di agevolare «gli attori aziendali ad assicurarsi che i loro frutti di mare fossero più sostenibili», e a pubblicizzare il proprio programma di trasparenza nella filiera di approvvigionamento. Finanziamenti che però non hanno comportato alcun miglioramento sul fronte della sicurezza dei pescatori d’immersione. Un quadro che ha spinto le famiglie delle vittime “da decompressione” a fare causa al governo honduregno, condannato dalla Corte Interamericana dei diritti umani nel 2022 per non aver disposto misure garantiste che prevenissero lo sfruttamento del lavoro da parte delle imprese ittiche. Una pronuncia a dir poco storica: il primo caso di competenza della corte in cui uno stato è stato dichiarato responsabile della violazione dei diritti dei lavoratori avvenuta entro i suoi confini.
Puerto Lempira, capoluogo di Gracias a Dios
Gracias a Dios, un destino già scritto
Ai Caraibi altri paesi contemplano i FIP o simili progetti di rinnovamento del mercato ittico. A volte, come in Nicaragua, con risultati che sembrerebbero più soddisfacenti, data l’adesione dei governi esteri interessati e l’operatività di quello nazionale. Un modello commerciale che ha palesato i propri limiti in Honduras, anche in ragione del livello basso di governance territoriale che lo contraddistingue. E senza investimenti pubblici il destino dei popoli autoctoni è scritto: continuare a morire o infortunarsi per 10 pound al dì. In luoghi come La Mosquitia e Cauquira, in cui il tasso di analfabetismo è sconcertante, la pesca subacquea di aragoste e lumache di mare resta l’unica forma di sostentamento possibile per coloro che non si vogliono lanciare nel narcotraffico. Per campare, in assenza di programmi di cogestione della filiera, anche i pescatori che hanno perso parziale mobilità articolare e funzione sessuale sono costretti a tornare alle condizioni di lavoro forzato di prima, le stesse che li hanno resi invalidi. Una magra consolazione potrebbe arrivare dal risarcimento del danno, se solo avessero i mezzi economici per far valere in giudizio i propri diritti.
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