È una svolta importantissima: così la magistrata Paola Di Nicola Travaglini, consigliera della Corte di Cassazione con alle spalle una lunga carriera in magistratura, commenta il varo del ddl che introduce il reato di femminicidio. Di Nicola Travaglini si è occupata della formazione dei magistrati penali, ha presieduto il Collegio per l’emergenza rifiuti in Campania a Napoli, è stata giudice penale al Tribunale di Roma, nonché consulente giuridica della Commissione sul femminicidio del Senato, dirigendo e coordinando i lavori dell’inchiesta sui femminicidi in Italia negli anni 2017-2018. Insomma: se si è arrivati al ddl che introduce il reato di femminicidio nel codice penale lo si deve anche al suo lavoro.
Nel 2023 l’Enciclopedia italiana, nell’ambito della campagna “le parole valgono” ha scelto “femminicidio” come parola dell’anno 2023. Una parola giovane: in Italia è stata introdotta poco più di una decina di anni fa sulla spinta dei movimenti di donne e di GiULiA, l’associazione di giornaliste, ma finché Roberto Saviano non ne ha parlato in Tv era un termine che faceva scandalo. Oggi da quella parola nasce una fattispecie di reato specifica. A dimostrazione che le parole servono, sono potenti, cambiano il pensiero e la cultura.
A Paola Di Nicola Travaglini – che dell’utilizzo corretto della lingua è talmente convinta da essere la prima magistrata a firmarsi al femminile e che ha condotto studi sul linguaggio delle sentenze –, abbiamo chiesto di commentare il ddl approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 7 marzo. Quando quel ddl sarà diventato legge, il femminicidio sarà il delitto commesso da chiunque provochi la morte di una donna per motivi di discriminazione, odio di genere o per ostacolare l’esercizio dei suoi diritti e l’espressione della sua personalità.
L’introduzione del reato di femminicidio, al di là dell’iter che dovrà seguire, è una buona notizia?
È un’eccellente notizia, perché imporrà al nostro Paese, sia in ambito istituzionale che in ambito culturale e associativo, di misurarsi con che cos’è il femminicidio: la definizione di un nuovo reato, con un movente e con dei parametri che ad oggi nel codice penale non abbiamo. Oggi il codice penale definisce il femminicidio, cioè l’uccisione di una donna perché donna, alla luce dell’articolo 575 riferito al reato di omicidio, quindi questo nuovo articolo cambierà in modo epocale l’interpretazione del reato che avrà finalmente un movente, un movente legato alla disparità di potere che esiste tra donne e uomini e all’esercizio di un potere degli uomini nei confronti delle donne.
Un cambiamento epocale, diceva, ma lei in passato ha fatto notare come, leggendo e analizzando le sentenze di violenza degli uomini nei confronti delle donne, c’è bisogno anche di un salto culturale, a cominciare dal linguaggio di quelle sentenze.
Voglio farle un parallelo con l’articolo 416 bis sull’associazione di tipo mafioso. L’Italia è un Paese aggredito dalle mafie, sporcato, distrutto, dilaniato dalla criminalità mafiosa, ma la parola “mafia”, fino a che non abbiamo avuto questo articolo del codice penale introdotto dopo l’uccisione di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa quasi non si usava. Il 416 bis ha consentito all’intero Paese di misurarsi con questo fenomeno criminale e culturale. È come la violenza maschile contro le donne, come il femminicidio. Quindi fino a quel giorno del 1982 non avevamo parole per esprimere e raccontare cosa fosse la mafia e grazie a quell’articolo del codice penale è cresciuta l’Italia. È chiaro che da solo un articolo del codice non basta, però consente di avere le parole per decriptare il fenomeno, per pensarlo, per esaminarlo. In questo modo il Paese cresce.
Il termine femminicidio nel nostro lessico è stato introdotto una decina d’anni fa e addirittura L’Enciclopedia Italiana nel 2023 ha dichiarato femminicidio parola dell’anno. Quindi le parole cambiano il senso comune e anche la cultura comune?
Sì, perché le parole consentono di pensare, chi non ha parole su cui riflettere non ha parole per dare forma al pensiero e quindi la parola servirà per misurarsi su qual è il movente di questo delitto e questo articolo del codice penale, per come sarà modificato, ci offre finalmente questa opportunità. Basti pensare che nel codice penale la parola donna non c’è. Esiste solo la parola donna incinta, cioè una donna vale solo in quanto porta in sé una o un figlio, una figlia. Ma la donna in quanto tale non esiste, esisteva solo per il delitto d’onore quindi per ridimensionare la pena di chi la uccideva.
E, d’altra parte, lo stupro è diventato reato contro la persona e non contro la morale solo nel 1996 e ci vollero ben cinque legislature per approvarlo.
Anche quello fu un cambiamento epocale. È stata la legge che ha avuto la storia più lunga di qualsiasi norma italiana. In realtà tutto quello che dal punto di vista giuridico riguarda i diritti delle donne ha avuto e ha una opposizione fortissima. Introdurre la parola donna nel codice penale, dal punto di vista simbolico significa riconoscere che le donne hanno uno statuto giuridico autonomo.
Siamo dovuti arrivare al 2025 per cominciare a costruire lo statuto giuridico autonomo delle donne: questo la dice lunga sullo stato di questo Paese. Un problema però che non riguarda solo l’Italia, ma molti paesi europei e non solo. Basti pensare che la Convenzione di Istanbul non è ancora tanto applicata non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa.
Ha ragione, però vorrei aggiungere due cose. La prima: questo articolo è figlio di un lungo percorso delle donne e della politica del nostro Paese. A partire parte dalla Costituzione italiana e dall’articolo 3 comma 2, e poi le leggi degli anni 70, dal nuovo diritto di famiglia all’abolizione del delitto di onore, fino al divorzio e all’interruzione volontaria di gravidanza. Prosegue con la ratifica della Convenzione di Istanbul nel 2013 e poi con tutte le leggi di contrasto alla violenza maschile contro le donne del 2009, del 2013, del 2019 e del 2023. Ed è figlio anche dei lavori della commissione parlamentare di inchiesta sui femminicidi. Insomma l’introduzione del reato di femminicidio è frutto di un lunghissimo percorso compiuto dalle donne italiane, quelle dei movimenti femministi e quelle della politica. La seconda è che l’introduzione di questo reato è un’eccezione a livello europeo, siamo i primi in Europa e forse nel mondo. Diventeremo un modello internazionale. Quando entrerà in vigore, il reato di femminicidio sarà l’uccisione di una donna per ragioni di odio, discriminazione e violazione della sua libertà personale. Quindi è un cambiamento epocale rispetto al quale il Paese deve fare la sua parte.
Qual è la parte che adesso deve fare il Paese, la società civile, ma anche i magistrati e le magistrate, gli avvocati e le avvocate, le forze dell’ordine?
Occorre fare un lavoro di formazione e di riconoscimento di cos’è la libertà femminile e di cos’è la discriminazione sessuale. Occorre fare in modo, come scrive adesso il nuovo articolo del codice penale, che venga visto e riconosciuto che il movente della morte di quella donna è dato dall’aver esercitato suoi diritti minimali di libertà: studiare, uscire con le amiche, lavorare, guadagnare quello che merita, trasferirsi, avere figli, o non avere figli. Le donne vengono uccise per questo. Le donne vengono uccise perché esercitano un minimo i diritti di libertà. Le violenze degli uomini nei confronti delle donne sono atti discriminatori ma nessuno li vede e nessuno li ritiene delle violazioni di diritti umani. Quando finalmente tutto questo avverrà, allora il femminicidio sarà “letto” anche dai magistrati, dagli avvocati, dalla polizia, ma sarà letto soprattutto dalle persone che vivono nei contesti sociali, familiari, lavorativi e consentirà quindi di evitare tante morti, perché ci sarà finalmente l’isolamento di coloro che discriminano le donne, isolamento che ad oggi non esiste.
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