Wojciech Górecki, le radici del presente nella terra degli estremi


Negli ultimi trent’anni Wojciech Górecki ha viaggiato in lungo e in largo attraverso il Caucaso, raccontando come, sulle rovine ancora fumanti del mondo ex sovietico, popoli, comunità, culture e lingue si misurassero senza sosta, spesso dando origine a conflitti drammatici e sanguinosi. Una spirale di violenza che per molti versi aiuta a comprendere anche quanto la Russia di Putin sta facendo in Ucraina da tre anni a questa parte.

Ma, per Górecki, tra i maggiori reporter polacchi, docente al Centro di studi orientali di Varsavia e autore di decine di opere, di cui nel nostro Paese l’editore Keller ha proposto due capitoli della sua trilogia dedicata a quest’area (Pianeta Caucaso, 2024 e Abcasia, 2025), questa terra evoca anche la meraviglia del viaggiatore e la curiosità di chi ne voglia narrare le storie con la grazia e il gusto di cronache dal sapore letterario.

Wojciech Górecki sarà tra i protagonisti dell’VIII edizione di Slavika, il festival delle culture slave, nato per iniziativa dell’associazione italo-polacca Polski Kot in programma da venerdì 14 a domenica 16 a Torino; l’appuntamento con il reporter polacco è sabato alle 17,30 al Circolo dei Lettori. Per il programma: www.polskikot.it

Il reportage letterario è nato per eludere la censura del regime. Per l’anniversario del 1917 Kapuscinski riuscì quasi a non citare l’Urss

Nel libro dedicato all’Abcasia, terza parte della sua trilogia sul Caucaso, parla del fascino che questa terra «che in uno spazio limitato racchiude tanto di tutto», ha sempre esercitato su di lei. Come è nato questo interesse e come ha realizzato i suoi reportage da queste zone sconvolte da decenni dalla guerra?

Ho iniziato ad interessarmi al Caucaso quando ero molto giovane e alle prime armi: al passaggio tra gli anni ’80 e ’90, mentre l’Urss stava andando in pezzi. All’epoca studiavo sia giornalismo che storia e ho capito che ciò che accadeva oltre il confine orientale della Polonia era di fondamentale importanza per il destino dell’Europa come del mondo intero. E avevamo la rara opportunità di osservare la storia in divenire con i nostri occhi. Il Caucaso era un buon punto di osservazione per questi processi, perché lì, concentrate, ci sono nazioni, culture, lingue, ma anche conflitti e, in cima a tutto, gli interessi di attori esterni. Così, quando avevo solo 23 anni, nel 1993, sono partito per seguire la guerra in Abcasia e, una volta arrivato, mi sono reso conto che per capire davvero dovevo recarmi anche a Tbilisi (in Georgia), a Mosca e nel Caucaso settentrionale russo. Quindi mi sono spinto fino all’Armenia, l’Azerbaigian e, via via, la Turchia e l’Iran. A un certo punto anche l’Asia centrale è apparsa nel mio campo di interesse: Kazakistan, Uzbekistan e il resto degli «stan». Qualcuno ha detto che i viaggiatori si dividono tra quelli che esplorano di continuo nuove aree e chi ritorna negli stessi posti per anni per conoscerli più a fondo, più intensamente. Beh, io sono rimasto bloccato nel Caucaso e nell’Asia centrale: visito queste regioni da 30 anni e non mi sono ancora mai annoiato.

Wojciech Górecki, foto di Katarzyna Rawska-Górecka

Lei definisce in particolare l’Abcasia come «una landa selvaggia della contemporaneità», un Paese che ufficialmente non esiste. Cosa significa raccontare un luogo del genere?

Ho scritto un articolo sull’Abcasia per il quotidiano polacco Rzeczpospolita e l’ho intitolato «Un Paese tra virgolette». Lì, la difficoltà più grande è rappresentata dal fatto che i concetti più semplici che usiamo nel nostro contesto culturale, da queste parti possono assumere significati molto diversi, che tutto deve essere spiegato e chiarito, o – appunto – messo tra virgolette. L’Abcasia fa formalmente parte della Georgia (anche se è fuori dal controllo di Tbilisi dal 1993), si considera uno Stato indipendente ed è stata riconosciuta come tale dalla Russia dal 2008 (e da pochi altri Paesi). Ma in realtà è un protettorato russo. La lingua «di Stato» è l’abcaso (ci può essere una lingua «di Stato» in un non-Stato?!), ma quasi tutti usano il russo. Circola il rublo russo, anche se la valuta «formale» è l’apsar abcaso (ma vengono coniate solo monete commemorative). E la valuta formale è il lari georgiano. Un’altra difficoltà è di natura più generale: un giornalista non è mai certo di essere arrivato fino in fondo, di aver capito tutto quello che c’è da capire. Ad esempio, per me, la barriera è costituita dal non conoscere le lingue caucasiche. Sto imparando a conoscere queste zone attraverso il russo, e anche se per gli abitanti del Caucaso settentrionale è la seconda, e a volte persino la prima lingua, e per georgiani, armeni o azeri, è ancora la lingua straniera più conosciuta, considero questo un grande svantaggio. Se conoscessi il georgiano, il ceceno o una delle lingue circasse saprei come sono il Caucaso e il resto del mondo attraverso la loro sintassi e il loro stesso vocabolario.

Partite di scacchi in mezzo alla steppa in Calmucchia, mondiali di domino in Abcasia: nel mezzo di pericoli e minacce, lei racconta di volta in volta anche un mondo che ha qualcosa di magico. Si tratta di una componente significativa del suo lavoro: l’arte di sapersi ancora stupire?

Senza dubbio. Ancora oggi trovo difficile capire come le persone del Caucaso possano combinare caratteristiche così opposte come astuzia e ingenuità, o crudeltà e gentilezza. Di recente, mentre ero a Baku, ho trovato un tassista che voleva fare soldi con uno sconosciuto e mi ha chiesto per la corsa cinque volte di più di quanto doveva costare. Dopo una dura contrattazione, abbiamo finalmente raggiunto un accordo. Non avevo un soldo con me, quindi gli ho detto di aspettare perché dovevo andare a ritirare dei soldi ad un bancomat dietro l’angolo. Il tassista ha accettato senza problemi. Non gli è venuto in mente che potessi scappare senza pagare: pensava che solo lui potesse essere una persona astuta. D’altra parte, la persona più gentile, calma e colta che abbia mai incontrato nel Caucaso settentrionale, è stato un certo Georgy che aveva iniziato come spacciatore negli anni Novanta e vantava una fedina penale zeppa di omicidi e oltre una dozzina di anni di prigione già scontati. Mi ha ricordato un po’ Jaba Ioseliani, l’autore della prima rapina in banca nella storia dell’Urss (nel 1948), che dopo essere uscito di prigione ha conseguito un dottorato e l’abilitazione in studi teatrali e, dopo il crollo dell’Urss, è diventato membro del triumvirato al potere in Georgia. Georgy mi ha raccontato che ha trascorso le prime settimane di libertà seduto davanti alla casa dei suoi genitori senza fare assolutamente nulla. Si crogiolava nel fatto di essere sopravvissuto. Il Caucaso è un mondo di estremi. Alexander Rondeli, un noto politologo di Tbilisi morto nel 2015, lo ha spiegato magnificamente durante una conferenza, riferendosi a tutti i caucasici, non solo ai georgiani: «Siamo il popolo degli estremi».

Sul fondo delle sue indagini sul Caucaso si staglia la fine dell’impero sovietico, ciò che definisce così: «L’Urss faceva pensare a un edificio nelle cui mura erano state inserite delle cariche esplosive a scoppio ritardato». Quest’area rappresenta un luogo privilegiato da cui osservare l’esito di quel crollo?

Certamente. Se la vera fine dell’Impero ottomano è stata la dichiarazione di indipendenza del Kosovo e quella dell’Austria-Ungheria, la dissoluzione della Cecoslovacchia, allora le guerre nel Caucaso sono le fasi successive alla disintegrazione dell’Urss. Naturalmente l’aggressione della Russia contro l’Ucraina nel 2022 ha superato di gran lunga tutte le guerre caucasiche messe insieme, ma la «madre» dei conflitti post-sovietici può essere considerata la disputa tra Armenia e Azerbaigian sul Nagorno-Karabakh: durata 30 anni e per il momento conclusa nel 2023.

Se la vera fine dell’Impero ottomano è stata la dichiarazione di indipendenza del Kosovo e quella dell’Austria-Ungheria, la dissoluzione della Cecoslovacchia, allora le guerre nel Caucaso sono le fasi successive alla disintegrazione dell’Urss. Naturalmente l’aggressione della Russia contro l’Ucraina nel 2022 ha superato di gran lunga tutte le guerre caucasiche messe insieme, ma la «madre» dei conflitti post-sovietici può essere considerata la disputa tra Armenia e Azerbaigian

Lei scrive di conflitti che hanno luogo in Paesi non lontani dal suo, ma data la drammatica situazione odierna, con la guerra nella vicina Ucraina, come descriverebbe il clima e i sentimenti dominanti tra i polacchi?

C’è un senso di incertezza prevalente, rafforzato dalla grande incognita che è la politica del presidente degli Usa, Trump. Per me è difficile dire molto altro, perché stanno succedendo talmente tante cose e ci sono continui colpi di scena. Per parafrasare ciò che il grande scrittore albanese Ismail Kadare ha scritto in uno dei suoi romanzi, ogni giorno ci sono eventi a cui è difficile dare un nome appropriato.

Sulle tracce di Ryzard Kapuscinski, la tradizione del reportage narrativo sembra avere delle salde radici in Polonia, da cosa nasce questo fenomeno?

L’emergere della «scuola polacca di reportage letterario» fu paradossalmente favorita dal comunismo e dalla censura che esisteva all’epoca. I migliori reporter polacchi raggiunsero la maestria nel capire come scrivere in modo che il testo potesse essere pubblicato e allo stesso tempo in modo che il lettore apprendesse la verità. I reporter polacchi usavano il metodo della «goccia d’acqua». Così, ad esempio, poiché non era consentito scrivere della piaga dell’alcolismo, veniva descritto il destino di un singolo alcolizzato. Se non era consentito criticare il comunismo come sistema, veniva presentata la figura di un piccolo, malvagio comunista di provincia. Questo «passava» e il lettore capiva che stava leggendo dell’intero sistema. Verso la fine degli anni ’60, Kapuscinski scrisse un libro su richiesta dell’Agenzia di stampa polacca per commemorare il 50° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Ma non descrisse Mosca, Leningrado, le grandi costruzioni del socialismo o i voli spaziali del popolo sovietico. Andò nelle repubbliche sovietiche meno russificate, come Georgia, Armenia, Azerbaigian, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan e Kirghizistan, e descrisse le loro antiche culture. Fu così che nacque Kirgiz smonta da cavallo, uno dei suoi libri che preferisco. Sono ancora colpito da quanto onestamente e in modo veritiero abbia descritto il Caucaso e l’Asia centrale. E persino il nome Urss compare a malapena in quel libro!



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link