Milano, 11 marzo 2025 – “C’ero io quel giorno di cinquant’anni fa alla Spiotta!”. Lauro Azzolini, 82 anni, si assume davanti alla Corte d’Assise di Alessandria la responsabilità morale e politica di quel 5 giugno 1975, quando un gruppo di quattro carabinieri che sta passando al setaccio le colline di quell’angolo di Monferrato, in cerca di Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato dalle Brigate rosse, bussa alla porta di un casolare isolato. Dentro, il rapito, Mara Cagol, la moglie di Renato Curcio, fondatore dell’organizzazione, e un misterioso compagno, che riesce a fuggire nell’inferno di fuoco che si scatena, e che lascerà fra le vittime anche l’appuntato dell’Arma Giovanni D’Alfonso. Mezzo secolo dopo, dopo essere stato scagionato da un’istruttoria del 1987, la cui sentenza è finita distrutta nell’alluvione del 1994, su richiesta del figlio del militare, Bruno, si è ripartiti daccapo. E sono spuntate 18 impronte sulla relazione che il brigatista anonimo aveva lasciato ai capi dell’organizzazione su quei tragici fatti, testo ritrovato nel 1976 nel covo dove Curcio fu arrestato. Su quella carta 11 tracce corrispondono alle dita e alle mani di Azzolini, almeno secondo la giustizia. Da qui il processo, che vede fra gli imputati anche i due capi storici delle Br, Renato Curcio e Mario Moretti, 84 e 79 anni.
Le dichiarazioni spontanee
Dvanti alla Corte, Azzolini ha parlato. Ha consegnato un documento di due pagine in cui l’ex compagno “Menco” racconta, consegnando una memoria che ha più il sapore della ricostruzione storica che del documento processuale. Il principio del documento è chiaro e semplice. “Lì c’ero io”. Poi, il racconto, che tocca anche l’aspetto delicato, doloroso, del dramma vissuto dai familiari di D’Alfonso. E Azzolini, però, racconta anche l’altra protagonista di quella storia, Mara Cagol.
“Due persone che non dovevano morire”
“In un minuto breve di 50 anni fa quando tutto precipitò – scrive l’imputato -, un inferno che ancora oggi mi costa un tremendo sforzo emotivo rivivere, al termine del quale sono morte due persone che non avrebbero dovuto morire, il padre di Bruno D’Alfonso e Mara”. Per la moglie di Curcio, la donna che fece evadere il compagno dal carcere, e fu in prima linea nell’escalation della stagione del terrorismo, rimasta a terra nel tentativo di fuggire dalla cascina dove era recluso l’industriale vinicolo rapito poche ore prima, c’è un ricordo personale. “Una donna eccezionale, una compagna generosa, e la morte di una persona cara è un dolore incancellabile che ti porti dentro per tutta la vita, per tutti e senza distinzioni”. Una persona cara, come l’appuntato D’Alfonso per il figlio Bruno.
Cinquant’anni dopo la “lotta di classe”
Per Azzolini quel 5 giugno del 1975 fu “un giorno maledetto che non dimenticherò mai, ma visto che a distanza di 50 anni si è deciso di portarlo in un processo pubblico, oggi che di anni ne ho 82, e tutto intorno a me è cambiato rispetto a quando ne avevo meno di 30, quando, nel contesto delle lotte di classe, nel duro conflitto sociale, insieme a tanti altri compagni pensavamo di poter fare la rivoluzione, perché allora il mondo che ci circondava era molto diverso da quello di oggi, seppur in questo presente quotidiano assistiamo a violenze, povertà, sfruttamento, milioni di morti in guerre terribili tra poteri, operai uccisi dal lavoro, una umanità dispersa, ho deciso di raccontare quello che quel giorno è successo”.
“Io sono l’unico che ha visto”
Azzolini vuole parlare “prima che questo processo abbia inizio, e prima che lo facciano altri, perché io sono l’unico che ha visto quello che quel giorno è davvero successo”. E rivendica la paternità della relazione che gli viene attribuita dalla Procura, quel documento trovato nel covo milanese in cui a gennaio del 1976 viene arrestato, per la seconda volta, Renato Curcio. “Quel giorno è successo quello che avevo scritto allora, in quella ricostruzione fatta per tutti gli altri compagni delle Br, trovata dai carabinieri mesi dopo a Milano e che è stata nominata più volte dalla pubblica accusa – scrive Azzolini nella sua memoria -. Voi la leggerete, io non ci riesco, neppure a distanza di 50 anni, perché mi fa rivivere i dettagli di una prolungata sofferenza, per cui vi dirò quello che oggi ricordo di quel giorno di così tanti anni fa e che non avrebbe dovuto succedere”.
Le fabbriche di Torino e il sequestro Gancia
“Da pochi mesi ero arrivato a Torino e da operaio mi ero impegnato al lavoro di coordinamento delle avanguardie nelle fabbriche torinesi – spiega Azzolini, riferendosi all’attività delle Brigate rosse nelle aziende della capitale dell’auto -; dopo l’arresto di due compagni della Colonna torinese entro anch’io nella clandestinità proprio nel momento in cui per necessità di autofinanziamento l’organizzazione decise di sequestrare un ricco imprenditore”. Il ricco imprenditore è proprio Vittorio Vallarino Gancia, allora alla guida dell’omonima casa vinicola, morto nel 2022 a novant’anni. “Era la prima volta e io vi partecipai, il tutto avrebbe dovuto concludersi in pochi giorni senza conseguenze né per il sequestrato né per noi”. Il tentativo di finanziare la lotta armata con il rapimento, allora sistema applicato con regolarità dalla criminalità comune, fallì proprio per l’incursione, quasi casuale, di cascina Spiotta. Le Br ci riproveranno nel 1977, con il sequestro di Pietro Costa, rampollo della dinastia industriale genovese, che fruttò un miliardo e mezzo di lire, che servirono, fra l’altro, all’organizzazione del sequestro di Aldo Moro.
Scatta il sequestro e tutto va storto: “Eravamo impreparati”
Azzolini spiega come le speranze di un’operazione “senza conseguenze” vadano in fumo da subito. “Il giorno stesso del sequestro venne arrestato un nostro compagno che si dichiarò ‘prigioniero politico’ e l’indomani successe l’impensabile che stravolse tutto, perché a causa del fatto e della nostra impreparazione ci facemmo prendere alla sprovvista – ricorda Azzolini -. Mara e io avremmo dovuto controllare a turno l’unico viottolo di accesso alla cascina, ma d’improvviso sentimmo dei colpi forti alla porta e guardando dalla finestra ci accorgemmo della presenza di un carabiniere. Ad entrambi ci cadde il mondo addosso e ci prese il panico”.
“Nessuno ci ha addestrati”
“Ho sentito dire che saremmo stati istruiti e addestrati per cosa fare in quei casi e altre cose del genere, ma non è vero – ancora Azzolini -, non sapevamo assolutamente cosa fare perché non era mai successo, vi fu una improvvisazione di tutto sul momento, quel che ricordo è che decidemmo di fuggire abbandonando l’ostaggio. La confusione era assoluta, sapevamo che fuori ad attenderci c’erano i carabinieri. Ne avevamo visti due, forse tre, ma quanti di preciso fossero non lo sapevamo. Raccogliemmo carte e bagagli frastornati cercando di capire come da lì uscirne”.
La bomba a mano e la morte di D’Alfonso
“Si decise di usare le due piccole ‘SRCM’, quelle considerate di addestramento – dice Azzolini, riferendosi agli ordigni italiani della Società romana costruzioni militari, nate in periodo bellico e usate per ragioni “offensive”, cioè con minor carica e minor rischio di essere feriti durante un assalto -, lanciate senza mira alcuna avrebbero prodotto una esplosione tale da disorientare gli stessi CC e così avere lo spazio necessario per aprirci la fuga verso le nostre due auto che erano appena fuori”. Il racconto di una strategia semplice, quasi disperata. “Tutto precipitò – prosegue l’82enne ex brigatista -, sentimmo colpi di arma verso di noi, rispondemmo con qualche colpo nel caos di una frazione di secondi”. In quel frangente, per una delle bombe a mano, perde un braccio Umberto Rocca, 35 anni, tenente reggente della Compagnia di Acqui, che guidava l’operazione, che sopravviverà portando con sé le conseguenze di quel giorno. Azzolini, però, non ne parla. O almeno non lo ricorda nel suo breve memoriale. Come non riceve menzione, se non all’inizio e insieme a Cagol, la morte di D’Alfonso, che proprio nella prima fase della sortita resta ferito a morte, a terra.
La disperata fuga in auto
“Prese le nostre auto – aggiunge Azzolini riferendosi alla Fiat 127 e alla Fiat 128 che, da sotto il portico, insospettiscono i militari – pensammo di esserci riusciti, ma la carreggiata era sbarrata dall’auto dei CC, io e Mara ci urtammo finendo la corsa sotto il tiro di un altro carabiniere che era spuntato all’improvviso”. A quel punto, resta la resa. Che poi si trasforma in un ulteriore, disperato, tentativo.
“Uscito dall’auto mi affiancai a Mara che era già sul prato. Notai che sanguinava da un braccio, le chiesi se era ferita. Mi disse di sì, ma che non era niente e che se c’era l’occasione di tentare ancora di fuggire e risposi che avevo ancora una ‘Srcm’”. Ancora una bomba a mano. “D’accordo, al suo cenno, la lanciai e mi misi a correre verso il bosco, convinto che Mara mi avrebbe seguito. Raggiunto il bosco mi accorsi che lei non c’era e allora guardai verso il prato della cascina e l’ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare…”.
“L’ho lasciata viva, ho scoperto che era morta”
Azzolini non accusa direttamente nessuno. Si limita a dare una versione dei fatti, la stessa in sostanza racchiusa nella relazione consegnata ai capi delle Br cinquant’anni fa, che è diversa dalla ricostruzione dei carabinieri. Ma lascia, evidentemente, intendere che Cagol sia morta per un’azione volontaria e diretta dei carabinieri, non per reazione a una sua attività offensiva nei loro confronti. Questo, pur considerando che già i due fuggiaschi avevano finto di arrendersi, prima di lanciare l’ultima bomba a mano.
“Ho continuato a correre a piedi senza guardarmi indietro fino a raggiungere una zona distante, ben oltre il bosco – prosegue il memoriale -, quando sentii due spari. Continuai a correre per ore cercando un nascondiglio sicuro per aspettare la notte. Ero solo. Il giorno dopo, quando raggiunsi un paese, sulle prime pagine dei giornali seppi di feriti e vidi che Mara era morta distesa su quel prato dove l’avevo lasciata viva”.
La versione del carabiniere
Un punto chiave, soprattutto quello dei due spari, che Azzolini dice di aver sentito dopo la sua fuga, ben dopo l’allontanamento da cascina Spiotta. Per Pietro Barberis, allora cinquantenne, appuntato dei carabinieri che si vide lanciare la Srcm, però, le cose andarono diversamente, almeno stando al racconto messo a verbale dopo i fatti. Dopo il lancio della bomba a mano, il militare si sarebbe accucciato, evitando l’esplosione, per poi sparare altri tre colpi di pistola, uno dei quali avrebbe preso Cagol al fianco, stroncandola mentre si voltava per scappare con Azzolini. Il quale invece, oggi, davanti ai magistrati ribadisce di aver sentito quei colpi solo dopo essere scappato. Anche di questo si discuterà al processo.
“Perché decisi di non tornare indietro”
“Lo sconcerto, il dolore mi ha attraversato la carne come una lama – spiega Azzolini nel documento -. Poi il bilancio finale: un’altra morte come tragico epilogo di quella giornata. Con rispetto dovuto, è anche per quei due morti che non avrebbero dovuto esserci che non ho più potuto tornare indietro. Capisco che oggi questo sembrerà paradossale, ma allora per la mia coscienza di classe ha significato assumermi la responsabilità della scelta fatta”.
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