Il governo vara il ddl che segna l’inizio del ritorno al nucleare, di nuova generazione, per contribuire alla decarbonizzazione. Quali pro e quali contro?
Adesso è ufficiale: per l’Italia il nucleare sostenibile esiste. O almeno potrà esistere in futuro. Atteso ormai da qualche mese, è stato varato infatti dal consiglio dei Ministri il disegno di legge per l’introduzione dell’energia nucleare sostenibile appunto, o di nuova generazione, e anche quello futuribile basato sulla fusione nucleare, all’interno del mix energetico italiano. La proposta, presentata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin, ha come obiettivo l’integrazione del nucleare di nuova generazione e della fusione nell’ambito delle politiche energetiche nazionali, in linea con la decarbonizzazione prevista entro il 2050.
Secondo il ministro Pichetto Fratin, letteralmente “con il nucleare di nuova generazione, insieme alle rinnovabili, saremo in grado di raggiungere gli obiettivi della decarbonizzazione, garantendo la piena sicurezza energetica del paese. Così l’Italia è pronta ad affrontare le sfide del futuro”. Il governo italiano, insomma, è convinto il cosiddetto nucleare sostenibile contribuirà a rispondere alla crescente domanda di elettricità e rafforzare l’indipendenza energetica dell’Italia, riducendo anche le emissioni di CO2 e contenendo i costi energetici per cittadini e imprese. Scendendo nei numeri, l’ipotesi è quella di arrivare all’obiettivo Net zero del 2050 con una quota tra l’11 e il 22 per cento del totale dell’energia prodotta tramite nucleare, e la rimanente quota prodotta da fonti rinnovabili. Ma sarà proprio così?
Il nucleare sostenibile sarà davvero sostenibile?
Il nuovo nucleare dovrà differenziarsi nettamente dagli impianti del passato, destinati alla dismissione. Come già annunciato nei mesi scorsi, saranno adottati reattori modulari di piccole dimensioni (Smr), anche privati, e potrebbe essere creata un’autorità indipendente per la sicurezza nucleare, incaricata di regolamentare e monitorare le infrastrutture nucleari italiane. Il disegno di legge prevede una disciplina organica dell’intero ciclo di vita dell’energia nucleare, dalla sperimentazione alla progettazione e autorizzazione degli impianti, fino alla loro gestione e smantellamento. Un’attenzione particolare, viene assicurato, sarà riservata anche allo stoccaggio e allo smaltimento dei rifiuti radioattivi, con l’obiettivo di garantire massimi standard di sicurezza.
I promotori dei progetti nucleari, che come detto potranno essere aziende private, dovranno dimostrare di poter coprire i costi di costruzione, gestione e smantellamento degli impianti, oltre a eventuali rischi connessi all’attività nucleare. Inoltre, la delega prevede una stretta collaborazione con i gestori delle reti elettriche, al fine di valutare l’impatto della nuova politica nucleare sul mercato elettrico nazionale. Nei prossimi 12 mesi, il governo sarà chiamato ad adottare una serie di decreti legislativi per attuare la strategia delineata. Il piano nazionale comprenderà la sperimentazione, la localizzazione e la costruzione dei nuovi reattori, oltre alla gestione del combustibile nucleare in ottica di economia circolare. Sono previsti anche incentivi per i territori che ospiteranno le infrastrutture nucleari, al fine di garantire benefici economici e occupazionali per le comunità locali.
Tutto bene dunque? Non proprio. Intanto perché ci sarà da superare le ritrosie dei territori: altrimenti del resto non vi sarebbe bisogno di incentivi per ospitare le infrastrutture. Le quali del resto non saranno poi così piccole come si dice: piccole dimensioni poi, ma non piccolissime, perché lo stesso Pichetto ha azzardato un paragone solo qualche mese fa, durante una sua audizione in Parlamento: “Tutto l’impianto di un Srm, quindi non soltanto il piccolo reattore, può avere le dimensioni di un centro commerciale e contemporaneamente dare energia elettrica costante a più di 500mila mila persone”.
Inoltre, davanti alle commissioni Ambiente e Attività produttive della Camera, Enel ha parlato di un obiettivo di 70-110 euro al MWh, quando la filiera sarà a regime. Ma la testata specializzata Qualenergia fa notare che il fotovoltaico con batterie costa già meno oggi.
Non sappiamo come gestire lo smantellamento
Pochi sembrano porsi la domanda, ma come verranno smantellate le future centrali nucleari? Difficile dirlo, considerando che ancora non sappiamo come gestire del tutto quelle già dismesse. Il nodo da sciogliere per quanto riguarda le vecchie centrali rimane lo stoccaggio delle scorie: per queste, a oggi, non è stato ancora individuato un sito idoneo. Nel frattempo, i tempi del decommissioning si allungano. Secondo le nuove stime di Sogin, la società pubblica incaricata dello smantellamento, le operazioni si protrarranno almeno fino al 2052, con un ritardo di 11 anni rispetto alle previsioni ufficiali precedenti e un aumento dei costi di quasi 4 miliardi di euro. Inoltre, l’entrata in funzione del deposito nazionale per le scorie radioattive, inizialmente prevista per il 2029, è ora slittata al 2039, posticipando di un decennio il completamento dell’infrastruttura. Di conseguenza, il traguardo del “green-field” – la restituzione dei siti alla collettività dopo la bonifica – non sarà più raggiunto nel 2041, come stimato nel 2020, ma nel 2052.
Le dichiarazioni dell’amministratore delegato di Sogin, Gian Luca Artizzu, rilasciate a Il Sole24Ore lo scorso 12 febbraio, confermano una realtà ancora più onerosa: il costo complessivo del decommissioning nucleare è più che raddoppiato. Se fino a oggi l’Italia ha già speso circa 5 miliardi di euro, le nuove stime indicano che la cifra complessiva salirà a 11,38 miliardi, rispetto ai 7,8 miliardi previsti dal piano precedente. Un’escalation costante: nel 2013 la spesa era stimata in 6,6 miliardi, salita poi a 7,2 miliardi nel 2017 e a 7,8 nel 2020. L’aumento dei costi annunciato da Artizzu (+3,6 miliardi) equivale a circa un sesto dell’intera legge di bilancio 2025 approvata dal Parlamento italiano lo scorso dicembre.
E il conto potrebbe lievitare ulteriormente. Artizzu stesso ha sottolineato che inflazione e caro materiali – fattori tipici del mercato delle opere pubbliche, spesso aggravati dai ritardi nei cantieri – potrebbero far esplodere ulteriormente i costi.
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