Fermato a Manila di ritorno da Hong Kong dov’era in campagna elettorale, è accusato di crimini contro l’umanità. Contrari Usa, Russia e Cina. Tace l’Ue. Sfrutterà il procedimento a suo carico per continuare a fare a politica contro gli avversari e le istituzioni internazionali
Alla fine il fermo dell’ex Presidente delle Filippine c’è stato; ieri avevamo anticipato la richiesta della Corte penale internazionale, di arresto per Rodrigo Duterte martedì mattina la polizia lo ha bloccato all’aeroporto di Manila al suo ritorno da Hong Kong dove era in campagna elettorale. L’avvocato di Duterte ha immediatamente dichiarato che l’arresto è illegittimo mentre Duterte pare intenzionato ad affrontare il processo che si preannuncia in mondovisione. L’opposizione del collegio di difesa del politico filippino fanno riferimento al fatto che dal 2019, per decisione di Duterte stesso, le Filippine si erano ritirate dal Trattato di Roma per non correre il rischio che la violentissima “guerra alla droga” lanciata nel 2016 potesse esser perseguita penalmente a livello internazionale.
A fronte del ritiro dalla giurisdizione della Cpi, l’ufficio del procuratore aveva chiarito che trattandosi di fatti accaduti in un periodo in cui le Filippine erano parte del Trattato la competenza della Corte era indubbia – come indubbio era il fatto che il governo avrebbe voluto processare un proprio Presidente che governava col pugno di ferro, e vastissimi consensi. La giurisdizione della Cpi entra in funzione quando uno Stato parte del trattato non può o non vuole procedere penalmente contro un proprio connazionale o per crimini commessi sul proprio territorio, le indagini sarebbero iniziate nel 2018. I crimini contro l’umanità per cui Duterte è stato arrestato riguardano le uccisioni indiscriminate, massicce e sistematiche, di almeno 7000 persone, tra cui anche donne e minorenni, che o spacciavano o facevano uso di sostanze stupefacenti illecite, numeri disputati dalle organizzazioni non-governative che ritengono che le vittime siano circa 30.000.
Nella sua campagna elettorale del 2016, Duterte aveva promesso di sterminare gli spacciatori invitando la popolazione alla delazione arrivando perfino a far sequestrare i parenti dei presunti trafficanti o venditori di droghe per indurli a consegnarsi alle autorità. Nell’attesa di questo “scambio di prigionieri” centinaia di migliaia di persone furono trattenute negli stadi anche per giorni. Nel giro di poche settimane in una vera e propria campagna di terrore furono uccise e incarcerate arbitrariamente migliaia di persone con spiegamenti di polizia ed esercito in tutto il paese “coadiuvati” da squadroni della morte. Le settemila vittime uccise in pochi giorni e comunicate ufficialmente superavano il totale delle persone morte ammazzate dell’intero anno precedente. Ammazzamenti istigati da dichiarazioni a reti unificate che citavano Hitler e giustificavano anche violenze private e che ora inchiodano Duterte alle sue responsabilità politiche e penali.
Duterte era a Hong Kong in preparazione delle elezioni politiche di mid-term del 12 maggio in cui tutti i 317 seggi della Camera dei rappresentanti e 12 dei 24 seggi del Senato andranno al voto. L’ex presidente, quasi ottantenne, non ha mai fatto mistero della sua volontà di continuare a giocare un ruolo nelle vicende politiche del proprio paese. La figlia Sara, che a un certo punto sembrò criticare le persecuzioni di poveracci del padre, oggi è vice-presidente del Paese (nelle Filippine Presidente e vice possono essere di partiti diversi) e ha immediatamente criticato l’arresto come un attentato alla sovranità statale delle Filippine – recentemente Sara Duterte aveva pubblicamente augurato al Capo dello Stato Ferdinand “Bongbong” Romualdez Marcos Jr. una morte violenta candidandosi all’esecuzione. Grazie a testimonianze che negli anni sono state raccolte dalle indagini preliminari della Cpi che comprendono dichiarazioni di ex leader degli squadroni della morte di Duterte rei confessi, si è saputo che ci sono molte altre persone implicate nei massacri oltre all’ex presidente, tra questi due senatori in carica nonché, parrebbe, la figlia Sara. E’ possibile che l’arresto di Duterte sia solo il primo in questa delicata indagine. L’attuale presidente Ferdinand Marcos Jr, in passato amico di Duterte, dopo un’iniziale rifiuto, ha accettato di collaborare con la Cpi in seguito al deteriorarsi dei rapporti con “il castigatore”.
Duterte fu eletto nello stesso anno di Trump e tra i due fin da subito ci fu simpatia reciproca, diverso invece, almeno formalmente, il rapporto con la Chiesa. Anche se l’80% della popolazione è cattolica non ci furono mai minacce di scomunica nei confronti del Presidente anche se le esternazioni furono criticate – almeno fuori dal Paese. All’indomani del suo giuramento nel gennaio scorso, Trump ha imposto sanzioni alla Cpi rendendone il lavoro più difficile, un attacco che mette a repentaglio la sicurezza e il lavoro di funzionari della Corte e chi direttamente o indirettamente ci collabora. Nel pomeriggio di ieri si è appreso che Duterte era in volo da Manila per Rotterdam via Dubai. Siamo quindi all’inizio di un nuovo capitolo della vicenda politica e criminale di Duterte che, c’è da aspettarselo, sfrutterà la visibilità dell’inizio del procedimento contro di lui per continuare a fare politica contro avversari e istituzioni internazionali, certo che USA, Cina e Russia almeno in quest’ultima critica saranno dalla sua parte.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link