La Cassazione, con la sentenza n. 8269 del 28 febbraio 2025, ha risposto a questa domanda.
La vicenda sottoposta all’attenzione della Suprema Corte riguarda un autore di opere d’arte digitali, indagato per dichiarazione infedele (art. 4 della legge reati tributari).
In particolare, all’indagato veniva contestato di non aver indicato, nelle dichiarazioni dei redditi relative agli anni di imposta 2021 e 2022, redditi derivanti dai ricavi realizzati con la rivendita di NFT (ossia, non fungible token) incorporanti le sue opere di cybergraphic, i cui pagamenti avvenivano tramite cc.dd. criptovalute, denominate Ethereum o Ether. Il soggetto – con questa condotta – superava la soglia di punibilità prevista dall’art. 4 del D.Lgs. 74 del 2000.
Il giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) emetteva un provvedimento di sequestro preventivo (art. 321 del c.p.p.) a carico del soggetto indagato. Quest’ultimo proponeva richiesta di riesame avverso tale provvedimento, ma il Tribunale – in funzione di giudice del riesame dei provvedimenti cautelari reali – la rigettava e confermava quanto disposto dal G.I.P. Il soggetto impugnava, poi, l’ordinanza del Tribunale, proponendo ricorso per Cassazione.
Dunque, si commette un reato nel caso di criptovalute non dichiarate?
La Cassazione afferma che sussistono gli estremi del fumus del reato di dichiarazione infedele – di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000 – quando non si indicano, nella dichiarazione dei redditi, i proventi conseguiti tramite l’accredito di criptovalute e NFT. In particolare, ciò accade quando il valore di questi proventi, convertiti in valuta corrente, supera le soglie di punibilità previste dal richiamato art. 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000.
Difatti, come evidenziato dalla Suprema Corte, in queste situazioni, l’ammontare di tale accredito costituisce reddito imponibile ai sensi del Testo unico delle imposte sui redditi.
L’art. 53 del T.U.I.R. prevede che sono redditi da lavoro autonomo (e, come tali, suscettibili di generare imposte) “i redditi derivanti dalla utilizzazione economica, da parte dell’autore o inventore, di opere dell’ingegno”. Tra le opere dell’ingegno occorre ricomprendere le opere artistiche e, dunque, anche le opere di cybergraphic realizzate nella vicenda in esame.
Inoltre, i proventi conseguiti dalla rivendita degli NFT incorporanti le opere di cybergraphic e le cui transazioni avvenivano tramite criptovalute vanno valutati nell’ambito dell’art. 54 del T.U.I.R..
Infatti, la Suprema Corte precisa che, in base alla legge (art. 1, lett. d), D.Lgs. n. 184 del 2021), la “criptovaluta” deve essere intesa come “valuta virtuale”: cioè, “una rappresentazione di valore digitale” che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è legata necessariamente a una valuta legalmente istituita e non possiede lo status giuridico di valuta o denaro; però, essa è accettata come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente.
Dunque, quando conseguito, il relativo valore è tale da costituire reddito imponibile, una volta operata la sua conversione in moneta.
È possibile realizzare questa operazione poiché, nel concetto di “provento in natura”, che è idoneo a costituire reddito imponibile, va ricompreso anche ogni altro beneficio patrimonialmente valutabile che perviene al contribuente in quanto frutto, in questo caso, dell’utilizzazione economica delle opere dell’ingegno prodotte dal contribuente stesso.
Allora il problema diventa capire se le criptovalute siano beni dotati di una rilevanza patrimoniale.
Nel caso di specie analizzato, la criptovaluta utilizzata aveva un mercato nel quale la stessa riceveva una valutazione espressa in moneta corrente. Ciò fa sì che il valore della criptovaluta abbia una rilevanza economica e, quindi, il suo ammontare – conseguito dal contribuente – sia idoneo a costituire reddito imponibile, soggetto prima a dichiarazione e, successivamente, a tassazione.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, nonostante la “volatilità” dei valori espressi in criptovalute, la sommatoria delle criptovalute accreditate sul conto virtuale – espressa secondo il loro valore normale in valuta corrente – costituisce un provento assoggettato a tassazione secondo quanto stabilito dal T.U.I.R., ove conseguito attraverso una delle attività produttive di reddito imponibile.
In conclusione, stando a quanto finora analizzato, l’omessa dichiarazione di tali redditi digitali può comportare la realizzazione del reato di dichiarazione infedele, quando il loro ammontare oltrepassa le soglie di punibilità previste dalla legge.
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