Si era detto «felice di uccidere» e non lo ha mai rinnegato. «Che crimine ho commesso?», chiedeva ieri, mentre veniva fermato all’aeroporto di Manila, per il mandato d’arresto della Corte penale internazionale. Rodrigo Duterte, conosciuto in passato come «il punitore», si sentiva inattaccabile. Era appena stato a Hong Kong per una serie di comizi in vista delle elezioni di metà mandato di maggio, per cui si era ricandidato a sindaco della città che aveva già guidato quasi ininterrottamente dal 1986 a un decennio fa. E, invece, l’ex presidente delle Filippine è stato catturato e spedito all’Aja per essere processato con l’accusa di crimini contro l’umanità per la sua sanguinosa guerra contro la droga. Già ieri, poco dopo le 23 e una giornata di tensioni e polemiche, il suo aereo è decollato in direzione dei Paesi bassi.
«Dimenticate le leggi sui diritti umani. Se riuscirò ad arrivare al palazzo presidenziale, farò proprio quello che ho fatto da sindaco. Voi spacciatori, rapinatori e nullafacenti, è meglio che ve ne andiate. Perché vi ucciderò», minacciava Duterte durante la campagna elettorale del 2016. Una promessa poi mantenuta. Secondo i calcoli del governo, la sua «guerra alla droga» ha visto uccise 6.284 persone accusate di spaccio e consumo di droga. Secondo gli attivisti e la Corte penale internazionale, i numeri sarebbero molto più alti, coi morti che sarebbero addirittura tra i 12 mila e i 30 mila.
UN RAPPORTO delle Nazioni unite sostiene che la maggior parte delle vittime erano giovani e poveri, spesso disarmati, con la polizia che costringeva sistematicamente i sospetti a confessare i propri crimini in operazioni senza necessità di mandati di perquisizione e arresto. Il tutto con lo spettro di uno “squadrone della morte” di cacciatori di taglie, protagonisti di una lunga serie di esecuzioni extragiudiziali, sempre negate dal governo. «Non mettete in discussione le mie politiche perché non offro scuse, né giustificazioni. Ho fatto quello che dovevo fare, e che voi ci crediate o meno l’ho fatto per il mio paese», ha detto Duterte durante un’indagine parlamentare lo scorso ottobre. Posizione ribadita anche durante l’ultimo comizio di Hong Kong, quando ha definito «figli di puttana» i procuratori della Corte penale internazionale. “Qual è il mio peccato? Ho fatto tutto quello che ho fatto nel mio tempo per la pace e una vita pacifica per il popolo filippino».
Secondo i critici, la sua campagna ha colpito solo i pusher di strada e non ha mai raggiunto i grandi cartelli della droga. Ma quando ha lasciato la presidenza, nel 2022, Duterte aveva ancora una popolarità record tra i filippini. In particolare sulla vasta isola di Mindanao, dove molti si sentono emarginati dai leader della capitale e dove Duterte ha iniziato la sua ascesa politica “ripulendo” Davao e presentandosi come figura anti establishment e anti crimine.
L’EX PORTAVOCE di Duterte ha definito l’arresto «illegale», visto che le Filippine hanno lasciato nel 2019 la Corte penale internazionale, che ha però spiegato di avere giurisdizione sul paese per i presunti crimini commessi prima di allora. Gli attivisti definiscono l’arresto «un momento storico», mentre Sara Duterte, figlia dell’ex leader e vicepresidente, ha attaccato: «Questa non è giustizia, è oppressione e persecuzione». I veleni sono rivolti anche al presidente Ferdinand Marcos Junior, con cui aveva scelto di allearsi alle elezioni del 2022 ma con cui ora è in aperta rotta di collisione. Marcos, figlio del dittatore contro cui la famiglia di Duterte si ribellava negli anni Ottanta, ha più volte dichiarato che non avrebbe collaborato alle indagini contro il suo predecessore. Ma dopo gli scontri negli ultimi mesi, durante i quali Duterte ha paventato la secessione di Mindanao e sua figlia ha minacciato di morte il capo di stato, Marcos ha risposto alla richiesta di assistenza emessa dall’Interpol.
«L’Aja proceda con prudenza ed eviti doppi standard», ha commentato il ministero degli Esteri della Cina, che si era giovata di una svolta filo Pechino nella politica estera di Duterte, che in passato aveva anche definito «idolo» Vladimir Putin ed era entrato in rotta di collisione con Donald Trump, mettendo a rischio uno storico trattato militare che Marcos ha invece poi rafforzato.
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