Il debito per riarmare l’Europa sarà un enorme fardello ambientale per i posteri


L’economia di guerra dà la priorità alla produzione di beni e servizi per sostenere gli sforzi militari a scapito di altri settori. Essa comporta un riassetto economico in netto contrasto con il Green Deal e la crescita sostenibile che, in direzione opposta, mirano al benessere ambientale, sociale ed economico a medio e lungo termine. Il riarmo europeo è perciò destinato a frantumare non solo la società civile, ma anche le politiche ambientali europee. È la tomba di qualsivoglia mitigazione del riscaldamento globale e dell’adattamento al clima che cambia.

Una economia di guerra dirotta grandi risorse – finanziarie, materiali, morali – verso la produzione e l’uso delle armi. La prima, inevitabile conseguenza è lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali. Per produrre armi sono necessarie grandi quantità di materie prime, dai metalli ai combustibili fossili e agli elementi rari, la cui frenetica estrazione danneggia gli ecosistemi. Il riarmo europeo provocherà una accelerazione globale in questa direzione, soprattutto al di fuori dei confini europei, poiché il nostro continente è povero di tali risorse.

Il secondo effetto è la distruzione dell’ambiente. Le esercitazioni militari e, a maggior ragione, le guerre sono attività altamente energivore che disboscano, inquinano, distruggono gli habitat. Le guerre rilasciano inquinanti in atmosfera e nel suolo. La conversione alla economia di guerra, assieme al probabile esercizio dell’arte della guerra, hanno effetti esattamente opposti agli obiettivi del Green Deal: proteggere la biodiversità, ridurre i danni ecologici, promuovere i servizi ecosistemici.

Il terzo fattore di incompatibilità è legato espressamente alle emissioni di carbonio. Le operazioni militari sono tra i maggiori responsabili delle emissioni di gas a effetto serra. Esse producono già oggi quasi il sei percento delle emissioni globali. Le guerre non solo hanno un tragico impatto sulla vita delle persone, ma contribuiscono anche ad accelerare il riscaldamento globale. Nel suo primo anno, l’invasione russa dell’Ucraina ha generato più emissioni di gas serra della Repubblica Ceca.

La produzione e l’uso di veicoli militari, aerei e armamenti dipendono in larga misura dai combustibili fossili. Solo un satiro buontempone può parlare di carri armati, caccia bombardieri, missili elettrici. Se la tua auto da rottamare fa 15 chilometri con un litro di carburante, il carro armato ne succhia 15 ogni chilometro che percorre. L’economia di guerra accelera anziché rallentare l’estrazione e l’impiego di combustibili fossili.

C’è chi afferma che i conflitti armati, affossando consumi ed economie, potrebbero ridurre le emissioni. Un elogio simile a quello di chi esaltava le virtù climatiche di una guerra nucleare, causa di un immediato raffreddamento il pianeta, ancorché transitorio. Sono affermazioni campate per aria: le guerre inquinano la Terra, alimentano il riscaldamento globale, vanificano le politiche ambientali, con un indubbio impatto negativo a medio e lungo termine su ambiente e clima.

Gli effetti sociali spaventano anche più dell’impatto fisico. L’economia di guerra focalizza la società sui vantaggi a breve termine, penalizzando la sostenibilità a lungo periodo. In pratica, il riarmo penalizza la costruzione di infrastrutture resilienti, la transizione energetica, la crescita economica equa, quel complesso di attività che avvantaggia tutti i settori della società.

L’economia di guerra alimenta le disuguaglianze sociali e le disparità economiche. Solo un piccolo segmento della popolazione- appaltatori della difesa e produttori di armi – beneficia delle spese militari (Fig.1). E, per evidenti ragioni oggettive, molti beneficiari non saranno europei. Le questioni sociali – assieme a scienza e salute, arte, cultura e istruzione – finiscono in secondo piano, quando non vengono totalmente cancellate dall’agenda politica. Gli Stati fortemente dipendenti dalla produzione militare sperimentano quasi sempre una persistente povertà materiale, morale e culturale; e crescenti disuguaglianze.

Figura 1

Le economie di guerra non creano prosperità condivisa né alleviano la povertà. Anzi, spingono in direzione ostinata e contraria. La transizione da una economia di guerra a una economia verde crea posti di lavoro e riduce la povertà. Le spese militari, al contrario, si traducono in stagnazione economica e degrado ambientale.

Il debito per riarmare l’Europa sarà un enorme fardello per i posteri, che si scopriranno impoveriti da decisioni a loro estranee. Essi saranno condannati a vivere in un continente più sporco, attraversato da enormi conflitti sociali. Che potranno fare, costoro? Magari scaricare sui vicini il peso del debito, magari non bonariamente, grazie agli arsenali resi loro disponibili.

C’è chi sostiene che la guerra accelera il progresso tecnologico (Fig. 2) e, in ultima istanza, va a beneficio della transizione verde. È affatto falso: i costi ambientali – immediati e a lungo termine – dei conflitti superano di gran lunga i potenziali benefici. Ecco perché il riarmo europeo è una assoluta follia che, oltre tutto, nasce calpestando la democrazia, frutto di decisioni prese in assenza di qualunque confronto democratico. E affossa un ventennio di politiche ambientali comuni.

Figura 2

Se davvero si realizzerà, il riarmo europeo sarà la pietra tombale sul sogno dei padri fondatori della Unione, alle cui orecchie “riarmo europeo” suonerebbe come un ossimoro. “Chi prepara la guerra, anche a fini che crede difensivi, non fa altro, senza accorgersene, che volere la guerra” disse Pietro Calamandrei. Così facendo, l’Europa riarmata traguarda nuove tragedie che credevamo sepolte e irripetibili, marciando a passi lunghi e ben distesi verso la propria dissoluzione.

Le guerre high-tech hanno bisogno di pochi soldati, ma producono tantissime vittime civili e devastazioni enormi, come insegna la spettrale tragedia di Gaza. Per l’Europa in crisi demografica, non c’è bisogno di accelerare l’estinzione. Neutralità e disarmo, per contro, potrebbero aprire all’Europa le porte di un futuro sostenibile. Ne parlerò ne prossimo post.



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