Maranza Milano pestaggio scippo bande giustizia


L’accoltellatore del capotreno è libero. Il “maranza” viene pestato. E la gente si organizza da sola. Perché lo Stato, la giustizia non c’è più.

Non è uno scatto d’ira, è il segnale di una rottura

11 marzo 2025 – La violenza è evidente: calci, pugni, bastonate. Un gruppo di uomini aggredisce un ragazzo, identificato online come un “maranza”. È il termine con cui ormai si indicano giovani che agiscono in branco, spesso armati, protagonisti di video aggressivi sui social dove si vantano di furti, minacce e sopraffazioni. La giustizia non arriva, e allora qualcuno ha deciso di occuparsene da solo.
Non sono criminali, è esasperazione di chi si sente sopraffatto 

Non chiamateli delinquenti. Non sono bande organizzate, non sono teppisti. Sono cittadini che reagiscono. Una reazione sbagliata, certo. Ma figlia diretta di uno Stato che non punisce. E mentre questi uomini si prendono la scena con un atto di giustizia fai-da-te, l’accoltellatore del capotreno – un caso che dovrebbe indignare tutti – è già libero. Nemmeno un giorno di carcere. Come lui, tanti altri.

Una “normale” conseguenza

Quando lo Stato stenta, resta solo il vuoto. E quel vuoto lo riempie chi è stanco di subire. Chi ha perso fiducia nelle forze dell’ordine, nei giudici, nelle leggi. Non è giustificabile. Ma è comprensibile. È la conseguenza diretta di una giustizia che non c’è più. E allora basta: basta con lo Stato assente, basta con i comunicati, basta con l’impunità.

Il video del pestaggio: una città alla deriva

Accade a Milano. Un ragazzo viene accusato di aver scippato una collanina o di aver infastidito una donna. Nessuna denuncia, nessuna verifica. Cinque uomini lo circondano e lo massacrano. In mezzo alla strada, tra passanti indifferenti e chi filma col telefono. Nessuno chiama la polizia. È il deserto delle istituzioni, è l’anarchia urbana.

Il caso del capotreno

Proprio stamattina, come ormai accade troppo spesso, è stato liberato l’uomo che ha accoltellato un capotreno. Ha rischiato di ucciderlo. Ma non ha scontato nemmeno un giorno di galera. È già fuori. Una scena che si ripete con cadenza inquietante: aggressori seriali che tornano liberi, pronti a colpire ancora. C’è persino il timore che quel delinquente si ripresenti dal capotreno per deriderlo. E a quel punto la domanda diventa inevitabile: chi è il colpevole? Il criminale o chi lo lascia libero?

La nascita del gruppo “Articolo 52”

Questa è la vera notizia. In un Paese dove lo Stato si è ritirato e le istituzioni tacciono, sta nascendo un fenomeno che fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile: cittadini che si organizzano per difendersi da soli. Nasce così il gruppo “Articolo 52”, un nome tutt’altro che casuale. Richiama direttamente l’articolo della Costituzione che recita: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.” Ma in questo contesto, la Patria non è più una bandiera astratta. È il quartiere. È il pianerottolo. È la scuola dove vanno i propri figli. È la dignità quotidiana calpestata da bande di ragazzini impuniti.

I membri di “Articolo 52” si definiscono una comunità di autodifesa popolare, senza simboli politici, senza padroni, senza retorica. Solo azione. Solo reazione. Nascono nei quartieri dove i cittadini non ce la fanno più a vedere il nulla delle istituzioni. Dove polizia e magistratura arrivano sempre dopo. Dove la paura è diventata abitudine.

Non sono ronde, ma nemmeno assistenti sociali. Il loro obiettivo è chiaro: presidiare, osservare, reagire. Contrastare furti, scippi, spaccio, minacce. Identificare chi delinque, segnalarlo, metterlo sotto pressione. Non sono un movimento violento – almeno per ora – ma esprimono una rabbia collettiva canalizzata in un’azione diretta, visibile e autonoma. Alcuni di loro documentano ciò che vedono. Altri parlano con le famiglie. Altri ancora si limitano a esserci, fisicamente, nei luoghi in cui lo Stato non c’è più.

Sono già presenti in diversi quartieri di Milano, Torino, Verona, Bologna. Agiscono senza clamore, ma con metodo. Qualcuno li teme, altri li applaudono. Ma la verità è che dove nasce “Articolo 52”, è già morto qualcosa di più grande: la fiducia nella Repubblica. Il rischio, però, è evidente: se lo Stato continua a voltarsi dall’altra parte, questa “autodifesa” rischia di trasformarsi in qualcosa di più radicale. Per ora è solo un campanello d’allarme. Domani potrebbe essere una crepa irreversibile nel patto civile.

Milano abbandonata, Sala in silenzio

Nel frattempo, il sindaco Giuseppe Sala tace. Il comitato di quartiere lo accusa apertamente: “Non ci ha mai ascoltati. Fa finta di nulla da anni. E intanto le periferie esplodono.” La gestione buonista della città è saltata. I cittadini non aspettano più nessuno.

Una città sull’orlo del collasso

Il pestaggio non è un episodio isolato. È il sintomo di una città fuori controllo. Chi sbaglia non paga. Chi reagisce, rischia di più. Il caso del capotreno, e ora quello del “maranza”, mostrano come Milano sia diventata il simbolo di un’Italia che ha smesso di funzionare. Non c’è sicurezza. Non c’è fiducia. Non c’è giustizia.

“Vogliamo conquistare il Sud”

Chi segue TikTok e Instagram conosce bene i toni: le gang giovanili dichiarano apertamente di voler conquistare il Sud Italia, dopo aver “preso” il Nord. Minacciano, si filmano, picchiano. E poi ridono. Alcuni sono minorenni. Tutti noti. Ma sempre liberi. La giustizia rieducativa, in questo contesto, è solo una barzelletta pericolosa.

Giudici ciechi davanti ai social dei criminali

Sono tanti i casi di accoltellamenti, di rapine violente, di aggressioni brutali in pieno giorno. E nella maggior parte dei casi, gli aggressori vengono rilasciati dopo poche ore, liberi di tornare per strada e pronti a colpire nuovamente. Non serve una ricostruzione fantasiosa: i dati parlano chiaro. Decine di episodi in cui giovani, spesso già noti alle forze dell’ordine, vengono fermati per reati gravi e subito rilasciati con motivazioni incomprensibili. Si invoca la minore età, la necessità di un percorso rieducativo, la mancanza del rischio di reiterazione del reato. Poi, puntualmente, tornano a colpire.

Eppure, nel deserto della giustizia italiana, c’è ancora qualcuno che non si arrende. Il magistrato Catello Maresca è uno dei pochi che ha deciso di affrontare il tema con la serietà che merita. Lo ha detto chiaramente: “Andiamoli a prendere”, riferendosi proprio ai criminali seriali che si sentono intoccabili. Maresca ha sfidato il lassismo della sua stessa categoria, chiedendo ai colleghi di uscire dalle stanze dei tribunali per guardare la realtà. Una realtà che grida vendetta: bande di delinquenti che si organizzano alla luce del sole, che postano sui social le loro imprese, che deridono le vittime e sfidano lo Stato.

Il vero problema è che molti giudici, probabilmente, non hanno mai aperto un social network. Non vedono cosa pubblicano questi ragazzi. Non leggono le minacce, non ascoltano le canzoni rap in cui si vantano di crimini reali, non guardano le stories dove si riprendono mentre umiliano chi hanno appena pestato. Non vedono i commenti, gli applausi virtuali, la cultura della violenza che cresce impunita.

Eppure, sono proprio questi giudici a decidere delle loro sorti. Sono loro che, nel silenzio delle aule di tribunale, firmano scarcerazioni che rimettono in libertà criminali di fatto, che consentono a bande organizzate di prosperare. La giustizia ha chiuso gli occhi, mentre i criminali li tengono ben aperti sui loro schermi.

Ritorno ai “Don Pino di turno”

Nei quartieri popolari, dove si combatte ogni giorno con la disoccupazione, con la povertà educativa, con il degrado strutturale e ora anche con la criminalità giovanile, la fiducia nella giustizia è svanita da tempo. La gente non si affida più ai tribunali, alle forze dell’ordine, ai meccanismi istituzionali. Troppo lenti, troppo complicati, troppo distanti dalla realtà. E allora, a chi si rivolge chi ha paura? Chi è stato derubato, minacciato, pestato?

Non alla “giustizia che non giudica”, ma al Don Pino di turno. Non al giudice in toga, ma al prete del quartiere, all’educatore che conosce tutti per nome, al volontario che ha il coraggio di affrontare i clan e i baby criminali a muso duro. Non per dire una preghiera. Ma per chiedere protezione. E spesso anche giustizia. Quella vera. Quella che punisce.

Queste figure sono tornate centrali nei contesti dove lo Stato ha abdicato: non solo Napoli e Palermo, ma anche Milano, Torino, Roma, Bologna. In ogni città esistono aree dove gli abitanti si sentono più rappresentati da un prete di strada che da un giudice del Tribunale. È la nuova autorità morale e civile. E a loro si chiede ciò che lo Stato non offre più: intervento, mediazione, vendetta.

Il fenomeno è silenzioso ma concreto. Don Pino, Don Marco, Don Michele… tutti nomi reali. Sono loro che vanno a parlare con il fratello del delinquente. Che fanno da garanti. Che riportano una collanina rubata, che evitano ritorsioni. Ma anche che, con voce ferma, dicono al branco: “Vi abbiamo visto. Stavolta no”. È la giustizia popolare, quella che nasce quando quella vera muore. E cresce laddove nessuno punisce, nessuno difende, nessuno ascolta.

Milano come laboratorio del fallimento

La vicenda del “maranza” pestato è solo la goccia che ha boccato il vaso. Milano è ormai il simbolo di una deriva che da tempo si cerca di ignorare. È il laboratorio del fallimento istituzionale italiano: bande giovanili impunite – sia straniere che italiane – microcriminalità diffusa, aggressioni quotidiane nelle stazioni, nelle metropolitane, nei quartieri periferici. Le baby gang sono diventate una presenza costante. Rapinano, accoltellano, filmano, minacciano. Lo fanno in gruppo, protetti dall’inerzia delle istituzioni e da una giustizia che non sa più distinguere tra rieducazione e deresponsabilizzazione.

Milano era il fiore all’occhiello dell’efficienza amministrativa, del controllo urbano, del modello europeo. Oggi è un esempio di come tutto possa sgretolarsi in fretta quando si ignora il disagio e si minimizza il pericolo. I comitati di quartiere denunciano da mesi lo stesso copione: spaccio sotto casa, accoltellamenti, baby gang e immigrati irregolari che si muovono senza ostacoli. La risposta delle istituzioni? Tendenzialmente nessuna, o peggio: dichiarazioni rassicuranti, statistiche truccate, convegni sul nulla.

Il sindaco Giuseppe Sala, simbolo di una sinistra che ha rinunciato a parlare di sicurezza, gira lo sguardo altrove. Quando parla, lo fa di grandi eventi, di mobilità sostenibile, di agende verdi. Mentre la città reale chiede solo una cosa: essere difesa. Ma la politica, rinchiusa nella propria bolla ideologica, sembra sorda. E intanto Milano brucia. Non metaforicamente: brucia davvero, di rabbia e di abbandono.





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