In questi giorni si fa un gran parlare di aumento della spesa per la difesa, di esercito europeo e di rilancio della politica industriale dell’Unione. I piani spesso si sovrappongono e i termini del dibattito sono confusi, non chiariscono i rapporti reali, facendo ricorso a categorie di ragionamento superate. Si usano ancora slogan e semplificazioni di altri tempi. Siamo di fronte all’alternativa tra burro e cannoni? E che cosa comporta il nuovo modo di fare guerra sull’industria degli armamenti? Quella del riarmo è veramente l’occasione per costruire un’Europa politica? Lo abbiamo chiesto a Vincenzo Comito, esperto di storia della finanza e autore di testi che, indagando nelle varie tappe dello sviluppo capitalistico, analizzano gli effetti delle due guerre mondiali sull’economia. Oggi però lo scenario è completamente cambiato rispetto ai conflitti novecenteschi.
Comito, cominciamo da un commento sulla proposta di Ursula von der Leyen, gli ottocento miliardi di euro destinati al riarmo. Siamo in presenza di un megapiano di rilancio dell’industria europea? A chi andranno e dove verranno presi questi soldi?
La prima cosa da dire è che Ursula von der Leyen ha tirato fuori questa cifra dal cappello a cilindro, ma non ha spiegato niente. Non sappiamo nulla. Per fare un esempio concreto: la Germania, già prima di questa dichiarazione, aveva deciso un aumento degli stanziamenti nazionali per la difesa tra i duecento e i quattrocento miliardi. Anche la Gran Bretagna ha deciso un aumento della spesa per la difesa del 2,5%, poi c’è la Francia. Gli ottocento miliardi di cui parla la presidente della Commissione comprendono anche queste cifre? Comprenderebbero anche le cifre stanziate a livello nazionale da altri Paesi? Nessuno lo sa. L’unica notizia certa riguarda i centocinquanta miliardi che verrebbero tolti da un altro fondo dell’Unione europea, forse il Fondo di perequazione regionale. Non è chiaro neppure un possibile coinvolgimento della Banca europea per gli investimenti. Per quanto riguarda la destinazione, risulta chiaro che questi ottocento miliardi non sarebbero destinati a un soggetto comune, ma a ogni singolo Paese. Come d’altra parte prevede l’architettura giuridica dell’Unione. Il che significa che continueremo ad avere quindici tipi di carri armati diversi, dieci tipi di cannoni e quindici tipi di caccia. Per non parlare dei sistemi intelligenti ad alta tecnologia. Ognuno il suo? Ma anche di questo non sappiamo niente, se esistono già dei progetti e su quali modalità andrebbero finanziati. Ma ripeto: i miliardi di cui si parla sono la somma di quello che già i Paesi stanno stanziando? O sono aggiuntivi? Per ora non è dato sapere, ma ovviamente non è una notizia di poco conto. Anche questa volta la presidente della Commissione ha dimostrato di non essere all’altezza di un incarico così importante.
Veniamo alla seconda domanda. Per sviluppare l’industria, anche quella della difesa, servirebbe una politica industriale. Siamo in presenza di un ritorno? L’Europa finalmente si rende conto che è necessario avere una politica industriale per non essere schiacciata tra gli Usa e la Cina?
Si tratta di una questione su cui mi è capitato di scrivere più volte. A Bruxelles, fino a pochi anni fa, se avessero sentito pronunciare la parola “politica industriale” avrebbero messo mano alla pistola. Era una espressione che non si poteva più usare. Cancellata. Poi hanno capito (con grande ritardo) che l’Europa stava per essere schiacciata tra gli Usa e la Cina. E allora hanno deciso che si sarebbe dovuto fare qualcosa. Sono stati tirati fuori dei piani per la robotica, per l’intelligenza artificiale e così via, ma sono state tutte delle piccole cose: qualche miliardo di qua, qualche miliardo di là, che non cambiano assolutamente il quadro della situazione. La politica industriale era stata uccisa. Questo però non significa che non si dovrebbe fare e non si dovrebbero rilanciare piani seri di ricerca e di sviluppo industriale europeo. Si tratta tuttavia di mettere in comunicazione i singoli Stati, che si intendano sul da farsi. Per ora non abbiamo questa Europa comune, ognuno decide per sé. Sarebbe invece una questione fondamentale, altrimenti l’industria europea è spacciata per sempre. Basta guardare alla situazione attuale. I settori cosiddetti “maturi” sono tutti in crisi: l’auto, la chimica, la meccanica, poi c’è qualcos’altro, ma i settori fondamentali vanno tutti malissimo. L’auto si sa com’è messa, è una gara tra Cina e Tesla. Solo i tedeschi un po’ resistono, perdendo però grossi colpi perché hanno una base produttiva e commerciale in Cina, e poi sono molto indietro sul fronte tecnologico. La chimica è in crisi anche a causa degli effetti sui prezzi dell’energia della guerra in Ucraina. Oggi i grandi complessi chimici europei, prima di tutto quelli tedeschi, non ce la fanno. Quindi emigrano: c’è chi va in Cina, chi negli Stati Uniti, anche perché il mercato della chimica in Europa ormai è sì e no il 10% del mercato mondiale.
Può fare qualche altro esempio concreto per definire questa crisi industriale e questi ritardi?
Appunto la chimica, dove oggi il primato è cinese e non più americano. Anche sulla meccanica l’Europa perde posizioni. Faccio due esempi che conosco meglio. Sapete chi produce le macchine per scavare i grandi tunnel, le tecnologie per perforare il sottosuolo? Una volta il primato era dei tedeschi, ora è della Cina. La stessa cosa succede per la produzione delle grandi gru portuali: le produce la Cina. L’Europa nella ricerca avanzata non c’è. Ed è stato esemplare il caso del DeepSeek cinese. La Cina ha fatto con pochi milioni quello che i grandi produttori statunitensi hanno fatto con centinaia di miliardi di dollari. Un caso che dimostra come, tutto sommato, non è una questione di soldi o solo di soldi, ma è una questione diversa, di strategie, di volontà, di sguardo lungo. Da questo punto di vista la situazione è sconfortante. Va bene, compriamo armi, ma per andare dove?
Chi appoggia l’idea del riarmo usa l’argomento del potere trainante dell’industria bellica su tutti gli altri comparti industriali. Una volta parlavamo di riconversione, ora la narrazione è rovesciata?
Nella storia contemporanea ci sono stati vari esempi di queste tendenze. A parte la Prima e la Seconda guerra mondiale, pensando anche al New Deal degli Stati Uniti, vediamo che ha portato un miglioramento, dopo la crisi del 1929, ma poi l’economia statunitense ha ripreso a marciare con la guerra. Sì. Anche Hitler ha usato l’industria degli armamenti per rilanciare l’economia tedesca con il riarmo. E oggi chi propone questa strada pensa di rilanciare l’economia. Ma c’è una cosa che non si dice, a parte le ovvie obiezioni di chi pensa che sia meglio costruire la pace, invece che investire in armi. La cosa di cui non si parla in nessun dibattito è il soggetto protagonista. Le nuove armi non saranno un prodotto dell’Europa. I soldi che vengono (o verranno) investiti servono per acquistare sistemi d’arma americani, gli unici ad avere quelle tecnologie (Cina a parte, ma da cui non possiamo ovviamente comprare). Perciò io penso che ricadute positive reali sull’industria europea non ci saranno. Basta analizzare i dati reali: negli ultimi due anni, due terzi degli armamenti acquistati dall’Europa sono stati comprati negli Stati Uniti. Ma poi, come abbiamo visto di recente, non solo compriamo dagli Usa, ma gli americani conservato le chiavette per far funzionare quei sistemi. Siamo quindi totalmente dipendenti, sia nell’acquisto sia nell’utilizzo. Non compriamo il diritto a farli funzionare. Lo abbiamo visto con il caso degli F-35. Ci sono solo i francesi che spingono per prodotti europei, ma intanto i tedeschi hanno già ricominciato a comprare sistemi americani.
Sta dicendo che tutta questa grande campagna per la difesa e il riarmo europei si potrebbe tradurre nel suo contrario?
Esattamente: se non succede qualcosa di rilevante, tutto questo discorso potrà tradursi in un consolidamento del Patto atlantico, non con un’uscita di un’Europa finalmente autonoma, finalmente soggetto tra virgolette libero. Da questo punto di vista non cambia niente, perché gli europei compravano negli Stati Uniti e continueranno a comprare negli Stati Uniti, ma anche perché certe tecnologie militari non ce le abbiamo, come nel caso dei satelliti di Musk. Per fortuna, mi pare che ci siano dei ripensamenti sull’acquisto dei satelliti Starlink, anche in Italia. Ma rimane il problema dell’alternativa. E qui arriviamo all’altra grande questione dell’eccesso di burocrazia della macchina europea. Sono stati firmati, per esempio, degli accordi commerciali (o stanno per essere firmati) con il Mercosur e con l’India. Ma prima che vengano approvati e resi operativi potranno passare tre anni. E tra tre anni chissà dove saremo.
Anche la strada di un’Europa verde, il famoso New Green Deal, che le destre tanto odiano, è ormai rimesso nel cassetto?
Che nella storia la ricerca e l’industria della difesa abbiano fatto da traino per tutto il resto delle produzioni, è cosa assodata. Ma in questo caso il progetto che viene proposto, per le cose dette sopra, è troppo ambiguo e contraddittorio. Sembra legato soprattutto alla necessità di dire qualcosa per bilanciare gli sfondoni di Trump. E poi, prima di ripensare alle ricadute “pacifiche” o “sostenibili” di questi investimenti in armi, visto che i soldi non nascono sugli alberi, dovremmo capire dove si andranno a pescare questi ottocento miliardi. Diventa chiaro che le risorse andranno drenate dalla sanità pubblica, dalla scuola e poi – non dimentichiamocelo – dalle pensioni. Per quanto riguarda l’economia sostenibile, oggi non riusciamo a intuire come andrà a finire. Sappiamo però che gli industriali italiani sono ferocemente contrari all’auto elettrica, perché non sono in grado di competere in questo campo. E in fondo il governo Meloni non è che una cassa di risonanza di queste forze che si oppongono al cambiamento.
71
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link