“L’ecosistema italiano fa progressi, ma serve una visione che valorizzi le startup come motore di crescita per il Paese”


Lo Startup Nations Standard Report 2024 fotografa i progressi di 24 Paesi europei nell’adozione di politiche a sostegno della filiera dell’innovazione. Come si posiziona l’Italia? Abbiamo chiesto a Giorgio Ciron, direttore di InnovUp, un commento sui dati e sullo scenario. «Vorrei che il Ministero delle imprese e del made in Italy creasse un testo unico per le startup e riorganizzasse tutta la normativa che si è stratificata negli anni: gli imprenditori hanno bisogno di chiarezza e semplificazione»

«In Italia esiste un paradosso: abbiamo una normativa sulle startup tra le migliori in Europa, eppure il nostro ecosistema fatica a crescere in termini di investimenti in venture capital, unicorni e attrattività internazionale». È questo il quadro tracciato da Giorgio Ciron, direttore di InnovUp, e confermato dai dati dello Startup Nations Standard Report 2024, presentato a fine febbraio a Stoccolma da ESNA – Europe Startup Nations Alliance, di cui InnovUp è il referente per l’Italia. Lo studio fotografa i progressi di 24 Paesi europei nell’adozione di politiche a sostegno delle startup.

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Giorgio Ciron

L’Europa ha raggiunto un livello medio di implementazione del 61%, con miglioramenti nell’accesso ai finanziamenti (72%), nell’attrazione dei talenti (64%) e nella digitalizzazione delle procedure amministrative (70%). Restano criticità sul piano delle normative e dell’accesso agli appalti pubblici. L’Italia si divide tra progressi e problemi. Bene su accesso ai finanziamenti (67%), digitalizzazione (71%) e stock options (92%) per i lavoratori. Male per la lentezza nella creazione di nuove startup (15%), le difficoltà di accesso agli appalti (21%) e la capacità di attrarre talenti internazionali (48%). Abbiamo chiesto a Giorgio Ciron un commento sui dati, anche per capire dove serve un cambio di marcia.

Partiamo dai problemi. Qual è l’aspetto più critico per l’ecosistema italiano emerso dal report?
Il dato più negativo riguarda la “Startup creation”, un processo su cui l’Italia ha perso molto terreno negli ultimi anni. Siamo al 15% rispetto a una media europea del 70%.

In alcuni Paesi si apre una startup in meno di un giorno e con costi inferiori ai 100 euro. In Italia non è così. Qual è la soluzione?
Fino al 2020 anche in Italia si poteva costituire una startup a bassissimo costo e online, tramite un modulo sul sito della Camera di Commercio. Poi il Consiglio Nazionale del Notariato ha fatto ricorso, ha vinto al TAR e in Consiglio di Stato e la norma è stata stralciata. L’aspetto paradossale e amaro è che nel 2021 la Commissione Europea ha chiesto a tutti gli Stati membri di prevedere la costituzione digitale per le startup. Noi ce l’avevamo e siamo tornati indietro proprio quando potevamo essere i migliori della classe europea. E come abbiamo applicato la direttiva UE? Con una videocall col notaio. Così oggi ci ritroviamo un processo più lungo e costi decuplicati, da 250 a 2.500 euro circa.

Com’è posizionata l’Italia nel contesto europeo?
Non male, se guardiamo le altre singole voci. Sul “Digital first”, per esempio, abbiamo fatto grandi passi in avanti, anche grazie al PNRR, migliorando l’accessibilità dei servizi pubblici digitali. Anche la normativa è buona. La legge del 2012 è stata una delle prime in Europa. Basti pensare che la Ley de Startups, approvata in Spagna alla fine del 2022, ricalca quello che l’Italia aveva introdotto dieci anni prima. Per anni siamo stati tra i migliori in Europa insieme al Regno Unito, sempre in alto nelle classifiche.

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giorgio ciron

E oggi?
Il problema oggi è che non riusciamo a tradurre le buone norme in una crescita effettiva dell’ecosistema. Fare impresa in Italia resta difficile: burocrazia, cuneo fiscale, alti costi del lavoro. Il contesto normativo positivo per le startup non si traduce in un ecosistema maturo a livello di investimenti. E qui c’è un gap rilevante con i principali competitor europei.

In che misura?
Abbiamo fatto progressi significativi, confermati dai dati. L’ecosistema italiano è cresciuto del 30% circa nel 2024 in termini di finanza raccolta, contro una media europea che ha perso il 9%. Ma se guardiamo l’investimento pro capite, l’Italia è ancora indietro: 114 euro investiti tra il 2020 e il 2024, contro i 280 della Spagna, i 580 della Germania e i 770 della Francia.

Eppure l’accesso ai finanziamenti in Italia è tra gli aspetti positivi del report. Siamo sulla strada giusta?
L’impatto di CDP Venture Capital è stato importante, proprio come in Francia dieci anni fa con BPI France. Oggi abbiamo una spinta pubblica anticiclica, che permette all’ecosistema di crescere anche quando altrove si rallenta. Stiamo andando nella direzione giusta, ma mancano alcuni tasselli.

Quali?
Primo, permettere ai fondi pensione e alle casse di previdenza di investire di più nel venture capital, e speriamo che questo avvenga con la nuova normativa del Ddl concorrenza. In secondo luogo, rafforzare gli investimenti nelle fasi seed. Terzo, attrarre più investitori internazionali che guardino con interesse il nostro Paese.

Cosa frena gli investitori stranieri?
Non abbiamo un numero sufficiente di storie di successo e di exit da poter mettere sul piatto.

Tra le sfide aperte, resta quella dei talenti. Quali misure potrebbero rendere il Paese più competitivo?
Non è un posto facile per i lavoratori: gli stipendi sono bassi e fermi da anni, il costo della vita è alto. C’è poi il fattore skills. La formazione STEM è ancora sottovalutata rispetto ad altri Paesi. E poi mancano strumenti normativi efficaci per attrarre i talenti internazionali, come i visti agevolati. Lo Startup Visa è complicato e vale solo per chi fonda una startup. Bisogna semplificare.

Servirebbe una linea comune in Europa?
Sì. Oggi stiamo lavorando con la Commissione europea alla nuova normativa per le startup e speriamo che l’introduzione del 28° regime (un quadro giuridico uniforme per le imprese UE) porti regole più semplici anche per i talenti.

Quali Paesi rappresentano un modello virtuoso?
Il riferimento è la Francia perché ha una strategia di sistema Paese. In Francia, ma anche in Spagna negli ultimi anni, si è capito che investire in startup significa creare posti di lavoro, sostenibilità e sviluppo economico per il futuro. Più che una singola norma, quello che a noi manca è una visione. Serve un governo, qualsiasi sia il suo colore politico, che creda che l’ecosistema sia importante per la crescita del Paese.

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Su cosa l’Italia potrebbe essere un modello?
Possiamo fare scuola, e l’abbiamo fatto, per la nostra capacità di realizzare una normativa efficace per il mondo delle startup e dell’innovazione. La teoria la conosciamo bene.

Quali sono le richieste più urgenti che arrivano dagli imprenditori?
Smart Money, ovvero più risorse nelle fasi giuste. I 100mila euro del preseed si trovano. Il problema è negli investimenti tra uno e tre milioni, quelli che permetterebbero alle startup che hanno potenziale di fare il salto di qualità. Poi serve maggiore attenzione da parte delle corporate, che collaborano ancora troppo poco con le startup o con regole del gioco che non sono poi così favorevoli. Infine, i talenti: il mismatch tra domanda e offerta di lavoro è un problema per chi sta cercando di crescere.

Cosa chiederebbe per migliorare la situazione?
Al governo chiedo che ci sia una strategia che metta al centro le startup e l’innovazione come motore di crescita per il Paese. A CDP Venture Capital di promuovere nuovi fondi per colmare quel vuoto nei finanziamenti seed. Al Ministero delle imprese e del made in Italy di creare un testo unico per le startup, riorganizzare tutta la normativa che si è stratificata negli anni e che ha bisogno di chiarezza e semplificazione.





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