
Un illustre Segretario del Tesoro USA del passato, Andrew W. Mellon, disse: “Una nazione non è in pericolo dissesto semplicemente perchè deve a sé stessa del danaro”.
Parole sacrosante anche in Italia, almeno sino al febbraio 1981, quando si consumò all’insaputa del Parlamento e quindi degli elettori, la separazione tra Ministero del Tesoro e Banca d’ Italia con un mero scambio epistolare tra i titolari, rispettivamente Beniamino Andreatta (DC) e Carlo Azeglio Ciampi, con la fiera opposizione del Ministro delle Finanze di allora Rino Formica (PSI), che dovette soccombere.
L’effetto si vide pochi mesi dopo, nel luglio del 1981, quando per effetto di tale divorzio, la Banca d’ Italia non poté più acquistare i titoli di stato invenduti, stampando l’ equivalente in moneta, collocati per lo più nel mercato nazionale dei piccoli risparmiatori, il cui tasso d’ interesse era predeterminato dal Governo, ma i titoli dovettero essere venduti sul mercato anche internazionale, con conseguente fluttuazione al rialzo dei tassi d’ interesse e conseguente rischio di speculazioni finanziarie, che poi si verificarono puntualmente.
Ebbene un siffatto cambio radicale di politica economica avrebbe, a mio dire ( ma non solo ), ben meritato un passaggio parlamentare, ed ancor più un aperto e informato dibattito nell’ opinione pubblica, e non una “congiura” di palazzo, così definita e quindi candidamente ammessa da Andreatta in un’ intervista rilasciata il 26 luglio 1991 a “Il Sole 24H” ( Si riporta alla lettera lo stralcio: “Il divorzio non ebbe allora il consenso politico, né lo avrebbe avuto negli anni seguenti; nato come “congiura aperta” tra il Ministro e il Governatore divenne, prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso – soprattutto sul mercato dei cambi – abolire per ritornare alle più confortevoli abitudini del passato…”)
E per comprendere il disastro economico finanziario arrecato agli italiani, si riportano i dati del debito pubblico italiano, che nel 1980 era del 57,7% del Pil per poi schizzare al 124,3% nel 1994.
Tale crescita, molto più consistente di quella degli altri Paesi europei, non fu dovuta ad una impennata della spesa dello Stato, come sostenuto tutt’ oggi dagli economisti di area centrosinistra, spesa che invece rimase sempre al di sotto della media della Ue e dell’Eurozona e, tra 1991 e 2005, addirittura al di sotto di quella tedesca. Infatti nel 1984 l’Italia spendeva – al netto degli interessi sul debito – il 42,1% del Pil, che nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso periodo, per inciso e completezza espositiva, la media Ue (esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6% e quella dell’Eurozona passò dal 46,7% al 47,7%.
Da dove deriva allora l’ impennata del debito italiano nei primi anni ’90 che perdura anche oggi? Ovviamente dalla spesa per interessi sul debito pubblico, che fu, rimase e rimane sempre molto più alta di quella degli altri Paesi.
La spesa per interessi infatti crebbe in Italia dall’8% del Pil che era sino al 1981, all’11,4% del 1984, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Sempre nello stesso periodo la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella dell’Eurozona dal 3,5% al 4,4%.
Nel 1993 il divario tra i tassi d’interesse divenne addirittura triplo, il 13% in Italia contro il 4,4% della zona Euro e il 4,3% della Ue e tale livello si mantenne anche negli anni successivi e dunque più o meno invariato sino ad oggi.
Rimane pertanto evidente che l’improvvisa eliminazione del calmiere dato da una componente importante della domanda, quale è la Banca Centrale nazionale, ben prima dei diktat europei, ha avuto l’effetto di far schizzare verso l’alto gli interessi e, quindi, di far esplodere il debito totale, visto che l’entità dei tassi d’interesse sui titoli di stato, ovvero quanto lo Stato paga per avere un prestito, dipende dalla domanda dei titoli stessi e soprattutto da chi li acquista. Ed infatti l’ eliminazione del cordone protettivo della Banca d’Italia sui titoli di stato espose il nostro debito alle manovre speculative degli investitori internazionali.
Fu quanto accadde nel 1992, quando gli attacchi speculativi alla Lira costrinsero l’Italia ad uscire dal Sistema Monetario Europeo ( SME ) e a svalutare la nostra moneta del 30%, proprio al momento d’ ingresso dell’ Italia nella moneta unica.
Un caso? Non proprio, perchè per ridurre l’ enorme disavanzo accumulato e rientrare nei parametri europei si dovette poi dar corso alle privatizzazioni e conseguente svendita del patrimonio industriale italiano, che, per inciso, dava fastidio soprattutto alla Germania.
Ma questa è un’ altra storia. Oscurata – a mio parere – per pura convenienza politica del centrosinistra e per occultare le sue responsabilità del nostro disastro economico.
A cura di Stefano Sforzellini
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